XII: Arrivi

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Taron, viste le pesanti nevicate, aveva pensato di aver guadagnato tempo.

Avrebbe voluto rivedere l'orfana, trovare un modo per far intendere al padre che il fidanzamento, per quanto voluto da Everett stesso, non gli aggradava per niente. Fin troppi desideri gli si era accalcati nella mente dopo aver visto Myrer coperta da uno spesso strato bianco, capace di rendere fiabesca l'aria che impregnava le risaie e la pianura. Suo padre, però, era stato di tutt'altro avviso.

"Lascerò correre la tua scappatella con la benedetta" gli aveva detto dopo aver congedato le giovani, rigirandosi il bottone tra le dita. "Ma non ho alcuna intenzione di fidarmi del tuo inesistente buonsenso: fino all'arrivo di Everett sarai seguito in ogni momento da una guardia a me fidata o da Hubertus. Sappi che è l'ultima volta che ti perdono qualcosa di simile."

Taron aveva incassato senza alcuna protesta, sollevato dal fatto che, almeno in apparenza, il Governatore non fosse venuto a conoscenza del colloquio col mutaforma; meglio lo immaginasse intento a sedurre una povera fanciulla che impegnato a indagare sul delitto. Tuttavia, l'essere controllato gli aveva impedito di muoversi liberamente anche fuori dalle mura del palazzo, cosa che col passare dei giorni l'aveva reso più impaziente e intollerante nei confronti dell'uomo sempre alle sue calcagna; in uno scatto d'ira, l'aveva scacciato a male parole dopo che aveva tentato di rimanere presente durante un colloquio con la madre, ormai così malata da apparire con più di un piede nella fossa.

"Idiota" pensò con disprezzo, lanciando un'occhiata alla guardia, vicino a suo padre. Ancora poco e avrebbe potuto liberarsi di lui.

L'uomo rispose al suo sguardo con uno simile, il che portò Taron a digrignare i denti e a concentrarsi sull'ambiente circostante, nel tentativo di distrarsi. Non che ci fosse molto da vedere: il cortile del palazzo era, se possibile, ancor più vuoto del solito, con cumuli di neve sporca alternati alla fanghiglia nerastra che inzaccherava le scarpe dei pochi presenti in attesa dell'arrivo degli Hæð - suo padre, Hubertus, qualche guardia, lui stesso e infine Blas, imbacuccato com'era usuale che fosse. Solo il cielo di un azzurro limpido dava un tocco delicato all'insieme.

"Signorino, dovreste fingere di essere contento" lo rimproverò in un bisbiglio il servitore, fermo al suo fianco. "Almeno per le prime ore."

Taron si costrinse a distendere i lineamenti. "Preferirei comunque non incontrarla" replicò sottovoce. "Tutta questa situazione è..."

Lasciò la frase a metà, catturato dalla comparsa di una carrozza tra i battenti del portale delle mura, seguita da un paio di cavalli dal manto scuro. Rimase in silenzio a osservare come avanzassero con lentezza tra i mucchi di neve spostata dal passaggio di altre vetture, col cuore che correva rapido al pensiero che ormai non era più possibile trovare alcuna scappatoia.

"Su, signorino... non state certo andando al patibolo" lo rimproverò bonario Blas, accennando a un sorriso. "Ci sono sorti di gran lunga peggiori."

"Come quella delle orfane" pensò Taron. "Come quella di Nives."

Il vecchio sospirò, indovinando il corso dei suoi pensieri. "Dovreste smetterla di pensare alla benedetta. Non è un bene neppure per lei che vi siate intestardito."

Il giovane annuì pensieroso, per poi dare all'altro una pacca sulle spalle. "Hai ragione" ammise, nonostante la mente gli sussurrasse parole differenti. "Smetterò di rincorrere simili fantasie."

Detto questo portò l'attenzione sulle guardie che, rapide, erano corse a raggiungere la carrozza fermatasi poco più avanti; Taron storse il naso nel notare quanto la piccola vettura in legno, decorata col falco degli Hæð, paresse zavorrata all'inverosimile, tanto che le sue stesse ruote si piegavano sotto il peso dei bauli e dei sacchi accatastati sul tetto.

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