II: Come neve

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Taron tirò un ulteriore affondo. Sentì la spada penetrare nella paglia con un rumore secco, seguito dal clangore metallico dell'armatura di cui era stato rivestito il manichino mentre la estraeva dal varco lasciato aperto sotto l'ascella. I muscoli implorarono una tregua dall'allenamento, quindi prese un respiro profondo, l'aria fredda che gli bruciò i polmoni, e si terse il sudore che gli colava sul viso con la manica della casacca, prima di sedersi sui talloni. Tuttavia, non poteva fermarsi, non quando la pioggia sembrava essersi placata, nonostante le nubi scure che ancora coprivano il sole.

Aveva bisogno di non pensare, e distruggere un manichino di paglia dopo l'altro gli era parsa la soluzione migliore visto che una cavalcata, considerato lo stato in cui versava, l'avrebbe portato solo a rompersi l'osso del collo. Non era possibile che continuasse a pensare a lei.

Scosse la testa con veemenza e si alzò in piedi, spostando la spada nella mano sinistra. Guardò il manichino, piantato in mezzo al fango del cortile del palazzo, e poi si avventò su di lui con un fendente che squarciò la testa priva di elmo, facendo volare paglia da ambo i lati. Taron grugnì infastidito nell'estrarre di nuovo la spada rimasta incastrata nel legno del fantoccio, e fece cenno a uno stalliere di portargliene uno nuovo.

Non era possibile.

Erano già trascorsi due giorni da quando era stato dai Guardiani, due giorni in cui era stato occupato con le preparazioni per l'arrivo del sovrano e l'evitare il padre, le cui urla nervose avevano squarciato la quiete del palazzo, ma non riusciva a non smettere di pensare a quel viso. Era certo che l'orfana gli fosse passata davanti agli occhi ben più di una volta, vista la grande quantità di tempo che aveva trascorso negli ultimi mesi nella santa sede dei Guardiani, eppure non era mai stata in grado di insinuarsi tra i suoi pensieri con tale intensità.

"Nives... come la neve."

Seguì i movimenti impacciati dello stalliere che, a fatica, trascinava un nuovo manichino; lo vide inciampare e scivolare a terra, la faccia già sporca che venne ricoperta di fanghiglia. Dopo aver alzato gli occhi al cielo ed essersi lasciato sfuggire un'imprecazione a fior di labbra, Taron piantò la spada nel terreno molle e raggiunse il ragazzetto; lo aiutò ad alzarsi, per poi sostituire lui stesso il fantoccio.

"Rivestilo con l'armatura" ordinò allo stalliere. "E porta un bersaglio e la mia faretra."

L'altro annuì e, rapido, eseguì la richiesta, le mani che gli tremavano e da cui talvolta sfuggivano i vari pezzi. Taron, però, era di nuovo troppo immerso nei suoi pensieri per rendersi conto di ciò che gli stava accadendo davanti agli occhi – si rifiutava di credere che l'orfana assorbisse gran parte della sua attenzione.

"Non sarei mai dovuto andare dai Guardiani." Si allontanò di un paio di passi e tirò un colpo a vuoto con la spada, accogliendo il sibilo che produsse a contatto con l'aria come una conferma dell'idea. "Aveva ragione mio padre, maledizione."

Tirò un ulteriore colpo, infastidito da una simile prospettiva. Non riusciva a comprendere cosa fosse peggio: se il pensare all'orfana oppure il dover ammettere che il Governatore, almeno per una volta, ci avesse visto giusto.

"Nives, Nives, Nives" ripeté con un sussurro, associando a ogni manciata di sillabe un montante. "Non va bene, non va affatto bene."

Non che non gli fosse già capitato di intestardirsi su una dama. Nel corso dei tre anni trascorsi alla corte di Feluss si era ritrovato addirittura a scrivere delle lettere piene di assurdità amorose a una fanciulla di Lumien, giunta a corte come servitrice della moglie di un ricco mercante, ma quella passione da tredicenne era morta nell'arco di pochi mesi, congelata dalle occhiate e i commenti rivoltogli dal precettore e da Everett stesso.

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