LI: Antichi sospetti

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Litthard non era mai stato paziente. Fin da bambino, quando ancora correva scalzo per le vie del villaggio natale con una guardia che tentava di acciuffarlo per recuperare il lauto bottino di cibo nascosto nelle tasche, aveva compreso che la pazienza non sarebbe mai stata una delle sue virtù; in fondo, sarebbe bastato attendere un attimo in più, giusto il tempo necessario affinché l'uomo svoltasse l'angolo, e la fuga conclusasi con quindici frustate accompagnate da una successiva infezione si sarebbe trasformata in un successo. Lui non aveva aspettato, però, non ci era proprio riuscito, e anche in quel momento, seduto tra le rovine di un nuovo palazzo presso cui si erano accampati, provava un costante senso di fastidio.

Il Reggente dei Ghiacci non tornava.

"E se fosse morto?" pensò, alzandosi dal blocco di pietra su cui era seduto. "Cosa potremmo fare?"

Non amava neppure definirsi un sentimentale, ma aveva provato fin dall'inizio una spiccata simpatia per il parricida dell'Oltre, capace di sfidare Winloas e il comune buonsenso a forza di battute taglienti e decisioni improvvise. Anche i draghi avevano contribuito ad ammaliarlo. Non avrebbe pianto una lacrima se fosse morto, di ciò ne era certo, ma, nel profondo, gli sarebbe dispiaciuto; oltretutto, solo Lögi avrebbe potuto dar loro notizie su Mano Rossa e gli altri.

"Potrebbe averli scorti dall'alto" rifletté, mentre si addentrava nel cortile. Le mura erano per gran parte crollate, creando squarci dai quali era possibile scorgere i territori circostanti, e l'erba cresceva incolta, riempiendo gli interstizi con una tenacia indiscutibile; se solo non fosse stato per il tarlo che gli rodeva l'anima, Litthard avrebbe trovato piacevole la vista che gli si srotolava davanti agli occhi, nonché la pace della sosta ottenuta dopo giorni di marcia. Eppure, non riusciva a fare a meno di tormentarsi sulla sorte di Taron.

Aveva provato a chiedere alla maga se fosse possibile compiere un incantesimo, qualcosa che permettesse di sapere cosa stesse accadendo agli altri, ma Mistiss era stata inflessibile: non c'era modo per comunicare con loro poiché non erano accompagnati da alcun incantatore, e quindi Litthard avrebbe solo dovuto placarsi e attendere, provando a coltivare la pazienza che non aveva mai posseduto.

"Se credete negli dèi, forse è arrivato il mondo di pregare" aveva aggiunto la ragazza a conclusione del colloquio, lanciandogli un'occhiata penetrante.

Lui aveva sorriso e si era concesso una boccata di fumo prima di rispondere, tentando di mantenere una parvenza rilassata. "Non credo che gli dèi potrebbero mai aiutarci. Solo Mano Rossa."

E ci credeva sul serio.

L'unico che avrebbe mai potuto sconfiggere Everett era proprio Taron. L'aveva visto lottare e farsi largo a fil di spada in un mondo dove non avrebbe mai dovuto mettere piede, senza provare paura o farsi fermare da ferite e sconfitte, tanto che non poteva immaginare nessun altro capace di rovesciare il tiranno. Anche la regina dei dragonieri, troppo fragile e ingenua, gli pareva inadatta a compiere una tale impresa. Forsa la lamia avrebbe potuto rivelarsi una sorpresa, nonché essere di maggiore aiuto al generale, ma aveva deciso di deludere le sue aspettative rimanendo nell'accampamento.

"Quella con un drago sarebbe invincibile" si disse, avventurandosi sotto una volta che, nel momento di massimo splendore, doveva aver coperto il salone principale del palazzo. Invece, era tutto silenzioso e distrutto, un vecchio scheletro sopravvissuto alla ribellione di Everett.

Litthard percorse a grandi falcate il salone spoglio, illuminato dalle lame di luce che penetravano tra le rovine, e si perse a osservare ciò che si parava davanti a lui. Fece scorrere la mano segnata da un intrico di cicatrici sopra le pietre che ancora componevano un muro, al quale erano rimasti aggrappati brandelli di tela scolorita, frammenti di antichi arazzi che avevano cessato di narrare le loro storie; seguì la strada delineata da un corridoio, le cui pareti annerite facevano pensare a un antico incendio.

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