Capitolo 1

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La pista, la strada, la mia pagina bianca.

Era una domenica di inizio maggio, soleggiata e abbastanza calda, ideale per una gara di atletica leggera.

Ero specialista nei mille metri, nella mia categoria ero una campionessa, vincevo sempre, tra le atlete italiane della mia categoria ero imbattibile, l'unica volta che non avevo ottenuto la vittoria era stato a causa di un forte raffreddore, altrimenti avrei vinto lo stesso.

Quella domenica guardai gli spalti dal campo della pista durante lo stretching, Riccardo, il mio migliore amico, e i miei genitori erano lì seduti vicini a osservarmi. Ero felice che ci fossero. Sorrisi nella loro direzione e loro mi risposero con un cenno della mano.

Appena mi voltai, però il mio sorriso si spense subito, i miei compagni di squadra mi guardavano con un ghigno di disprezzo, ormai per loro era una consuetudine. Cosa ci trovassero di divertente, non lo capivo, ma forse ritenevano che fosse il modo migliore per avere a che fare con me: evitarmi e inventare storie sul mio conto. Ma almeno quel giorno mi bastava guardare in alto per capire che non ero sola.

Poco prima della partenza Riccardo mi raggiunse.

-Come ti senti?- mi chiese mettendomi un braccio intorno alle spalle.

-Bene, non vedo l'ora di correre- dissi facendogli cenno di accompagnarmi alla partenza.

-Capisco. Quello che non capisco è perché non cambi squadra se ami così tanto questo sport, i tuoi compagni continuano a guardarti male- mi disse volgendo lo sguardo. Alcuni miei compagni di squadra ci fissavano e ridevano.

-Perché non cambierebbe nulla, incontro continuamente le stesse persone e gli stessi avversari. Se devo proprio trasferirmi dovrà essere per il professionismo-.

-Contenta tu-.

Chiamarono la mia batteria, i 1000 metri. Giorgio, l'allenatore, ormai aveva smesso di darmi consigli, sapevo già quello che dovevo fare. Riccardo mi salutò con un bacio sulla guancia e mi avviai alla partenza. L'adrenalina correva nelle mie vene, i muscoli non vedevano l'ora di scatenarsi e io non vedevo l'ora di far mangiare la polvere alle mie avversarie, quella domenica poi correva anche la più grande stronza dell'atletica della mia categoria, Giulia Gatto, una ragazza di Treviso, simpatia portami via. I suoi compagni di squadra pendevano tutti dalle sue labbra. Motivo per cui la chiamavo "Medusa", solo che Giulia non pietrificava con lo sguardo gli uomini, semplicemente loro facevano tutto quello che lei diceva. Per i ragazzi lei era come una dea. Era carina si, ma tutti le stavano sotto i piedi perché era una prepotente che tutti temevano. Era poco più alta di me, capelli lunghi e neri, occhi da vipera scuri. Solo guardarla, mi veniva voglia di tirarle un pugno, ma sono sempre stata più diplomatica, mi bastava seminarla in gara ed era una soddisfazione in più vedere la sua faccia furibonda dopo la clamorosa sconfitta. Lei che si credeva superiore a tutto e a tutti.

Quando il direttore di corsa sparò, partimmo. L'andatura iniziale mi annoiò un po', ma dovevo conservare le energie. Rimasi tranquilla tra le prime, poi partii con uno scatto quando mancavano circa duecento metri dalla fine. Giulia mi si accodò subito, non voleva lasciarmi scappare, all'ultima curva però, tanto per farle dispetto, accelerai. Le mie gambe quasi volavano sull'asfalto, le sentivo così leggere, che sensazione stupenda! Il fiato poi era perfetto, in sintonia con l'armonia dei miei muscoli. Giulia rimase indietro e io vinsi con un bel distacco. Le altre arrivarono dietro di me stremate, mi guardarono come se davanti a loro avessero un mostro dopato, ma a me non era mai servito il doping. Correre mi faceva sentire libera, così libera che nessuno era in grado di fermarmi o di starmi al passo. Doppiai quasi la mia compagna di squadra Asia, un'autentica nullità dell'atletica. Aveva un fisico tozzo e dalle forme poco armoniose, nonostante tutto l'allenamento che dovevamo affrontare, lei era sempre rimasta leggermente in sovrappeso. Di viso sembrava una ragazza dolce e tranquilla, che ispirava amicizia, aveva dei capelli ricci lunghi e neri, ma in realtà dall'occhio era cattiva quanto Giulia, solo che Giulia almeno se doveva offenderti, lo faceva di persona. Asia no, lei era falsa e doppiogiochista. Lo capii dopo un anno che ci conoscevamo, avevamo tredici anni, la credevo mia amica, forse l'unica nell'atletica, finché non spifferò a uno dei ragazzi che mi piaceva, solo per mettermi in cattiva luce e fidelizzandosi i divi della squadra. Ci era riuscita, perdendo però l'unica che conosceva il suo vero io. Vederla barcollare ultima, mi fece ridere. Aveva quello che si meritava.

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