𝟑𝟑 | 𝗇𝖺𝗉 𝗈𝖿 𝖺 𝗌𝗍𝖺𝗋

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𝐒𝐓𝐀𝐑𝐑𝐘 𝐄𝐘𝐄𝐒

𝗰𝗵𝗮𝗽𝘁𝗲𝗿 𝘁𝗵𝗶𝗿𝘁𝘆-𝘁𝗵𝗿𝗲𝗲𝗇𝖺𝗉 𝗈𝖿 𝖺 𝗌𝗍𝖺𝗋

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𝗰𝗵𝗮𝗽𝘁𝗲𝗿 𝘁𝗵𝗶𝗿𝘁𝘆-𝘁𝗵𝗿𝗲𝗲
𝗇𝖺𝗉 𝗈𝖿 𝖺 𝗌𝗍𝖺𝗋


Prendersi cura del proprio dolore era esattamente come far crescere una pianta oppure far sbocciare un fiore. Il dolore poteva essere paragonato a qualsiasi essere vivente o non che nel tempo mutava, si trasformava, si adattava o cambiava a seconda delle proprie esigenze.

Il dolore andava coltivato per far sì che ne uscisse qualcosa di buono, di forte, di speciale, perché si poteva sempre trarre del bene anche da tutto ciò che non si immaginava, da tutto quello che sembrava brutto e autodistruttivo.

Il dolore doveva essere arginato perché, proprio come il fuoco con l'aria, se non avesse avuto confini, avrebbe tendenzialmente bruciato tutto ciò che trovava sul suo cammino. Aveva bisogno di un limite per evitare che l'essere umano si immergesse completamente nel suo piccolo e oscuro angolo di infelicità, per poi annegarci a causa del disprezzo nei confronti di se stesso e dell'umanità, che inevitabilmente non lo avrebbe compreso.

Il dolore era una culla in cui ci si sentiva capiti, in cui ci si sentiva se stessi, liberi da qualsiasi schema pragmatico che l'umanità aveva imposto. Lì, in quel posto a molti sperduto, una ninna nanna dolce avrebbe accompagnato il pianto, e per un momento quasi sospeso nell'aria la propria anima sarebbe divenuta più leggera.

Se la nostra coscienza non avesse percepito l'idea del dolore sia fisico che mentale, non avremmo mai potuto considerarci umani.

Il dolore, la vera parte dell'anima, veniva definito come un'esperienza sgradevole, sia sensoriale che emotiva, associata a un danno dell'organismo attuale o potenziale.

Il dolore era il nostro vero scheletro, la nostra vera anima.

Prendersi cura del proprio dolore, fare un cerchio di sassi per non far divampare il fuoco, annaffiare la pianta per far sì che non si seccasse, travasare il fiore per permettere alle radici di aderire bene al suolo, accudire se stessi per far sì che il corpo e la mente non cessassero di vivere.

Taehyung ricordava alla perfezione il dolore lancinante che aveva provato quando la sua versione bambina aveva deciso di mettersi alla prova e di percorrere a grande velocità le strade del suo vicinato con i suoi piccoli piedi incollati sulla tavola del suo skateboard malandato. Non aveva visto la piccola imperfezione nell'asfalto e quel difetto gli fece perdere l'equilibrio per poi farlo cadere sul suolo cementato. Lacrime copiose gli caddero dal volto fanciullesco e si andarono a scontrare con la sbucciatura sul ginocchio, mescolando in quel modo l'acqua salina al sangue metallico. Aveva urlato di dolore e le sue parole si intersecarono confusamente tra i singhiozzi, fino a che non lo raggiunse sua nonna, che con estrema cura e attenzione si prese cura della sua ferita.

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