Capitolo 10

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Cosa aveva fatto?

Vega si abbandonò contro la porta chiusa del suo appartamento. Le mani tremavano, così scure nella penombra. Fletté le dita, più volte, il fiato che gli usciva dalle labbra in dei rantoli soffocati. Digrignò i denti, abbassò le palpebre, reclinò la testa. Urtò la porta con il retro della nuca, ma non gli arrivò alcun dolore, solo il suono sordo che rimbalzava sulle pareti.

Soltanto immagini spezzate gli stuzzicavano il cervello. Del sangue. Dei corpi. Uno piccolo, così piccolo, troppo piccolo.

Affondò la faccia nei palmi. Scivolò verso il basso, fino a che non incontrò il pavimento. Il freddo gli penetrò attraverso i pantaloni, gli ferì la pelle e si scontrò con il bruciore che proveniva da dentro di lui, da quei fulmini impazziti e incazzati.

Lo sapeva, cosa aveva fatto. Non ricordava come. Miura non gli permetteva mai di ricordare, non per intero; i fulmini con cui gli entrava nel cervello gli lasciavano solo degli spezzoni, un monito che lo rendeva consapevole di essere un mostro, e niente di più. Ma Vega lo sapeva lo stesso. Non gli serviva conoscere la modalità con cui aveva posto fine a quelle vite, sapere di aver rubato l'esistenza di innocenti gli bastava.

Non avrebbe resistito ancora. In nessuna maniera sarebbe riuscito a sopportare un'altra strage.

Una goccia gli colò sul labbro. Si infilò nella fessura e gli finì sulla lingua, dove sparse il suo sale.

Per chi piangeva? Per la donna e il bambino di cui non rammentava nemmeno il volto, o per se stesso?

Era davvero una creatura spregevole. Esisteva solo il suo dolore. Come se fosse lui la vittima della morte di un'intera famiglia. Una morte che aveva causato lui, a cui lui aveva dato inizio e che sempre lui aveva terminato.

Fece perno su un braccio e barcollò in piedi. Rimandava da troppo tempo. La soluzione a tutto la conosceva già, era il momento di trovare il coraggio e fare quello che andava fatto.

La cucina lo accolse nell'ombra. Il profumo del deodorante per ambienti gli alterò i sensi per un attimo. Cancellò ogni suo pensiero, mentre si dirigeva verso la dispensa e apriva le ante. Le folgori si calmarono, annusarono l'odore, si rintanarono nel loro posto segreto dove andavano sempre quando non volevano uccidere, qualunque fosse.

Vega cercò fra le file di piatti, senza sapere più cosa stesse cercando o perché fosse lì. Uno sporgeva a metà. Catturò subito il suo occhio, e si chiese quanto rimanesse della sua coscienza e quanta se ne fosse presa Miura. Lo spinse a posto e ritirò la mano a osservare l'ordine preciso. Non era sicuro fosse adatto a lui neanche così, ma era un miglioramento.

I pensieri cambiarono rotta, gli mandarono immagini dell'obiettivo che si era posto. Non era andato in cucina per aggiustare i piatti, cercava qualcosa. Richiuse la dispensa e lanciò un sospiro.

La corda.

Cercava la corda.

La trovò arrotolata su se stessa sul fondo dello stanzino, accanto alle scorte di carta assorbente. Le dita si mossero per afferrarla, ma si bloccarono a mezz'aria. Attesero lì, bloccate, che un'energia superiore donasse loro la forza di muoversi. Si ritirarono un poco. Poi scattarono e circondarono l'oggetto ambito. Ne testarono la ruvidezza.

Vega se la issò in spalla e chiuse la porta dello sgabuzzino.

Accese la luce della camera, e il letto a due piazze comparve di fronte a lui. Le coperte si attorcigliavano le une alle altre, il risultato di una lotta tribale avvenuta contro di lui durante la scorsa notte. Non pensava, quando lasciò la corda sul comodino e batté i cuscini. Non pensava, quando sistemò le lenzuola.

E non pensava, quando ammirò il risultato, almeno non con la propria voce. Il lato destro della coperta pendeva un paio di centimetri in più rispetto al sinistro, un'imperfezione che sarebbe passata inosservata a chiunque, tranne a Miura. Lui l'avrebbe adorata. L'ordine andava creato per poi sfidarlo, così gli ripeteva sempre il suo timbro vellutato nella testa. Piccoli dettagli, per dar vita a un'asimmetria ribelle ma velata.

Vega raccattò la corda e annodò il cappio. Poi la legò alla trave sopra al letto. Dovette arrampicarsi e sfasciare l'ordine asimmetrico. Perse qualche istante a osservare come i piedi gli affondavano nel materasso, dando vita a un intreccio di pieghe.

Quella era la vera ribellione, pensò, e si strinse il laccio attorno al collo.

Delle manine si protesero verso di lui. Allungò il braccio per afferrarle, ma cinse solo l'aria, e il ricordo svanì in una nuvola davanti ai suoi occhi.

Mosse un passo verso il vuoto. Poi l'altro. Il respiro gli si mozzò di colpo. La corda gli premeva contro la gola, desiderosa di segargli la carne e staccargli la testa dal resto del corpo. Lanciò dei rantoli. Agitò le braccia verso l'alto, si aggrappò alla fune dondolante.

I fulmini si risvegliarono di colpo e lo avvolsero da capo a piedi. Presero il controllo dei suoi muscoli, e tirarono, tirarono verso il basso. Gli occhi gli bruciavano. I polmoni gridavano.

La trave si spezzò in due con un rumore sordo. La corda scivolò via e Vega cadde con le mani sul pavimento. Bastò uno strattone per spezzare il cappio che lo teneva legato, e l'aria tornò a fluirgli dentro. Faceva male. Cazzo, se faceva male.

Cosa stava facendo?

Falliva perfino un compito tanto facile. Miura allora aveva sempre avuto ragione: non valeva nulla. Perché un uomo incapace di liberarsi dalle sue stesse sofferenze, di farla finita, non meritava nemmeno di essere chiamato tale. Cos'era, senza la sua guida, se non una macchietta priva di qualsivoglia valore?

Un mostro incapace di uccidere.

Un uomo incapace di morire.

La luce delle sue folgori produceva ombre allungate nella stanza. La lampada somigliava a una lancia, il letto una gigantesca marea oscura che l'avrebbe inghiottito.

Il ronzio del campanello gli arrivò ovattato, lontano. Vega respirò piano, con gli occhi incollati sul pavimento bianco. Doveva andare ad aprire. Doveva andare ad aprire, si ripeté, ma per qualche motivo il suo corpo non voleva saperne di obbedirgli. Restava semplicemente lì, buttato, a inspirare ed espirare, a godersi la sensazione del cuore che batteva ancora nel petto.

Suonarono una seconda volta. Vega batté le palpebre in successione e spinse sulle braccia. I muscoli lo ascoltarono, e lo riportarono in piedi. Non si preoccupò di nascondere la corda o di sistemare il casino, chiuse solo la porta dietro di sé prima di dirigersi all'ingresso.

Aprì, e Liam e Butch gli sorrisero sulla soglia. Tamaki alzò appena il mento per guardarlo, dietro di loro.

«Ehi, amico.» Butch gli diede una pacca sulla spalla. «Hai finito?»

Vega si fece da parte per permettere agli altri di entrare. «Cosa?» Il suo cervello faticava a registrare le informazioni. Era rimasto bloccato.

«Siamo venuti a vedere come stavi.» Liam si riavviò i capelli.

«Certo che sembri una merda, eh,» disse Butch. Lo superarono in successione e sparirono nella stanza adiacente senza aggiungere altro.

Tamaki si arrestò a pochi centimetri da Vega. «Vuoi parlarne?»

Lui provò a deglutire. Scoprì solo adesso di avere troppa poca saliva per mandare giù il groppo che gli ostruiva la gola. «No. Sto bene.»

Tamaki fece scorrere lo sguardo sul suo collo. «Ci hai riprovato?»

Vega abbassò il capo, ma non rispose. Mentire non avrebbe avuto senso, tuttavia la verità gli rimaneva legata sul fondo dello stomaco.

Il compagno non aggiunse altro. Seguì gli altri e lo lasciò lì, a chiedersi come si ordinasse al braccio di chiudere la porta.

Note:

Ok, ragazzi, capitolo breve ma intenso...

Non voglio commentarlo oltre, è stato un parto e spero almeno che abbia un senso. Il prossimo capitolo torniamo da Altair che, anche se comincia a spezzarsi, ogni tanto rallegra la situazione!

La Voce della TempestaWhere stories live. Discover now