Capitolo 37

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Controllo. Una stronzata. Una gigantesca, stupida e inutile stronzata.

Passare le giornate con le mani di un vecchio barbone sulle proprie, a sentire i fulmini di lui risalirle lungo le braccia e bloccarle i suoi, non serviva a nulla se non romperle le palle. Il fatto che non facesse nessun progresso e le saette la circondavano ogni volta che Yunca la lasciava libera, più incazzate di prima, di certo non migliorava la situazione.

E il dolore al fianco che ancora si faceva sentire, di tanto in tanto, anche quello la innervosiva.

Altair si tastò la pelle sotto la fasciatura raffazzonata con le dita. Ancora non era liscia e la ferita le bruciava al tocco, ma sopportò con una smorfia per continuare a ispezionare. Era stata fortunata che nessun organo vitale era stato danneggiato, a detta del vecchio, perciò la carne aveva iniziato subito la rigenerazione. Con il polpastrello toccò un foro ancora non del tutto guarito. Questa volta imprecò a gran voce.

«Proviamo ancora.» Yunca sedeva di fronte a lei. Puzzava al punto che distinguere ogni singolo odore risultava impossibile. Un cocktail di schifezze, ecco cos'era.

Non che Altair fosse messa molto meglio. Schioccò la lingua e barcollò in piedi. La pelle del fianco le tirava, come se qualcuno la tenesse stirata con due mollette. «Non se ne parla, ho già dato, mi sono rotta le palle. E poi, che fine ha fatto la ghiacciolina?»

Il busto gracile di lui si gonfiò come un palloncino. Un semplice ago sarebbe bastato a farlo esplodere; forse anche solo una spinta, per quanto misera, gli avrebbe rotto le costole, perforandogli i polmoni. E tutta l'aria gli sarebbe uscita fuori dalle labbra in un soffio. Gli occhi si sarebbero spalancati, avrebbero spinto per uscire dalle orbite.

Invece sbuffò soltanto. Ancora tutto intero, con tanto di puzza annessa. «Non sei pronta.»

«Ti ho detto che non me ne frega.»

«Non sei pronta,» ripeté lui. Forse sperava che romperle le palle con la stessa frase per tutto il giorno sortisse un risultato diverso. «E sei ancora ferita. Aspetta Elettra almeno,» aggiunse subito dopo.

Altair spalancò le braccia. «Quella stronza non torna. Quanti giorni sono passati? Mi sono rotta i coglioni di starmene qui a puzzare.»

Aveva anche sfasciato il telefono nel tentativo di caricarlo, per farle uno squillo, perciò non aveva idea di quanto tempo fosse andato sprecato lì dentro.

Yunca borbottò qualcosa, ma lei non lo ascoltò. Non gli prestò attenzione nemmeno quando le gridò dietro qualche offesa strampalata: gli rivolse le spalle e lasciò il rifugio dei senzatetto. Stringeva i denti a ogni passo, sforzandosi di non zoppicare. Un'impresa ardua ma non impossibile.

La moto l'aspettava lì dove l'aveva lasciata. Sul ciglio della strada, un ragazzino ci sedeva sopra e girava i manubri. Le labbra gli vibravano, mentre lui giocava a sfrecciare su una strada immaginaria. Peccato che mancassero gli specchietti, e i fanali erano distrutti. Qualcuno doveva aver avuto la geniale idea di prenderla a randellate, a giudicare dalle ammaccature sulla carrozzeria.

Che bel posto del cazzo. Lo odiava sempre di più.

Bastò che Altair si avvicinasse perché il ragazzino perdesse la voglia di fare lo scemo e schizzasse via, sperduto fra le stradine dei bassifondi. Una volta raggiunta la moto, Altair si appoggiò con entrambe le mani sul sedile e chiuse gli occhi per una manciata di secondi. Un calore insolito le risaliva dalla ferita e si espandeva nel resto del corpo, calore che si trasformò in bruciore non appena provò a risollevarsi.

Bella merda.

Davvero una gran bella merda.

Un peso le si abbatté sulla schiena, e lei si ritrovò con il sedile conficcato nello stomaco. L'aria le uscì fuori dalle labbra in un fischio traballante. La ferita esplose in una spirale di dolore. La vista le si annebbiò e i palazzi decadenti divennero un ammasso di colori indistinti.

La Voce della TempestaWhere stories live. Discover now