Capitolo 25

37 7 38
                                    

Una sola particolarità accomunava la stanza di Nim all'appartamento di Altair: il disordine. Nella camera della sorellina, la quantità di oggetti inutili, fumetti e libri superava di gran lunga la capienza delle quattro mura in cui dormiva.

Appollaiata sul davanzale della finestra – che per miracolo aveva trovato aperta – Altair trattenne a stento una risata. Una nerd fatta e finita, ecco cos'era sua sorella. Ma mentre appoggiava i piedi sul bruttissimo tappeto a pallini bianchi, i fulmini le mandarono una scarica lungo la schiena.

Nim non era nemmeno lì. Non era sotto il cumulo di coperte dai colori spenti, né alla scrivania a leggere il libro rimasto aperto.

Altair afferrò un quaderno dalla pila accanto a una lampada spenta e lo sfogliò. Volti tratteggiati a matita si susseguivano sulle pagine. Riconobbe se stessa nello schizzo impreciso. Delle linee guida appena abbozzate le sorreggevano gli occhi, fissi in un punto preciso oltre la realtà del disegno. Le macchie delle troppe cancellature sporcavano il ritratto.

Ne accarezzò la superficie con i polpastrelli e sbuffò un sorriso. Ci sapeva fare, la marmocchietta: nonostante la mancanza di colore e le imprecisioni, perfino in quel disegno appariva figa come di dovuto.

Sbirciò le pagine successive, e si ritrovò addosso lo sguardo depresso di un uomo. Perfino nella sua versione in sole due dimensioni si percepiva la rigidezza dei suoi muscoli, la severità dei suoi modi. Lui però era completo, senza cancellature di troppo e senza alcuna traccia delle linee guida.

Altair chiuse il quaderno di scatto e lo buttò sugli altri. Se lo ricordava, il tizio di colore della banda di Haruka.

I gusti di Nim in quanto a uomini restavano una merda. Chissà cosa ci trovava, in ragazzini rincoglioniti che manco sapevano guidare una moto, in vecchi rivestiti o in tizi con un punteruolo nel culo.

Accanto al libro aperto, una scatola di legno giaceva aperta. Altair sollevò il clarinetto che c'era al suo interno e se lo rigirò davanti agli occhi.

Non gliel'aveva mai detto, la piccoletta, che amava suonare il piffero. Forse temeva qualche battuta.

Lo rimise al posto, ma il contenitore cadde sul pavimento. Con un sonoro «merda!» Altair si accucciò a recuperarlo.

«Nim? Sei tu? Sei tornata?»

Quella voce, dall'altro lato della porta. Così vicina. Troppo.

La maniglia girò e i cardini cigolarono. Altair si precipitò a chiuderla con un calcio e una nuova imprecazione, che tuttavia non trovò la propria strada lungo la gola. Il clarinetto scivolò lentamente giù dalla scrivania, una seconda volta. Il tonfo che provocò a contatto con il pavimento le scombussolò i fulmini.

La donna oltre la porta spinse, ma lei tenne la suola della scarpa ben piantata. Non la spostò di un solo centimetro.

«Nim? Ascoltami, smettila di evitarmi, dobbiamo parlare.» Una botta contro il legno laminato. «Hai davvero intenzione di non parlarmi più?»

Altair abbassò la gamba, ma mise una mano a tenere la madre in una realtà lontana. Alcune scariche le si affacciarono sulle nocche, ballarono in coppia.

Dall'altra parte, un tonfo. La donna si era poggiata contro la porta, forse. Se la immaginava bene, con la fronte contro il legno, gli occhi chiusi e la zazzera informe di capelli rossi acconciati sulla testa in una pettinatura senza un cazzo di senso. Alcune ciocche le ciondolavano ai lati delle guance, sfuggite alla matassa di ferretti con cui lei cercava di imprigionarle.

Magari delle rughe le contornavano gli occhi, o forse le incorniciavano gli angoli della bocca. Lo sguardo però, quello probabilmente non era cambiato. Quello con cui la fissava mentre la portavano via. Quello con cui la giudicava quando la scoprì a utilizzare i fulmini.

La Voce della TempestaWhere stories live. Discover now