Capitolo 33

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Altair smontò dalla moto con uno sbuffo. Tolse il casco e si passò una mano sulla fronte; le gocce di sudore le bagnarono i polpastrelli. Bestemmiò, sventolando il braccio per asciugarsi. Un tizio vestito di stracci e con più olio che capelli in testa la osservava dal ciglio del strada.

Gli mostrò il medio, e lui assentì, una fila di denti gialli a decorargli il sorriso troppo largo. Spostò l'attenzione da una parte all'altra e cercò fra le poche figure che ciondolavano di qua e di là, poi aprì l'impermeabile sudicio e le indicò un sacchetto che sbucava dalla tasca interna.

Ci mancava solo lo spacciatore.

Altair attraversò sulle strisce mezze cancellate. «Tieniti pure la tua merda.» Si assicurò che almeno una manciata di metri la tenessero lontana dalla brutta faccia dello spacciatore e lo superò senza aggiungere altro. Lo udì borbottarle qualcosa alle spalle, ma non gli diede retta.

Le luci in quella zona facevano davvero cagare. Dei pochi lampioni presenti, solo la metà funzionava a dovere, gli altri sfarfallavano o restavano spenti. Come risultato si ottenevano sacchi di immondizia che strabordavano dai bidoni e divenivano un tutt'uno con l'oscurità che permeava la strada. Isole di luce malsane si disponevano in maniera del tutto casuale qui e lì, e regalavano ai disperati seduti sui marciapiedi un aspetto malaticcio.

Riconobbe subito la baracca che cercava, sebbene non l'avesse mai vista prima. Non tanto perché avesse qualcosa di diverso dalle altre catapecchie, quanto perché mancava una parte del muro. Qualcuno aveva ben pensato di utilizzare una qualche tovaglia consunta come tenda, ma era troppo corta e copriva solo metà della fessura.

Il vociare che proveniva dall'interno le provocò un senso di nausea. Quanti corpi sudaticci avrebbe trovato lì? Almeno una decina, se non di più. Come se la puzza dell'immondizia appostata ovunque non fosse abbastanza fastidiosa di suo.

Scansò la tovaglia e la schifezza la aggredì come se volesse ucciderla. Una martellata nel naso, fatta di sudore, tessuti mai lavati e roba non ben identificata. L'hamburger che aveva mangiato sul posto di lavoro le risalì dallo stomaco, avvolto dagli acidi. Lo rimandò giù, ma il saporaccio le rimase bloccato in fondo alla gola.

Una nota positiva però c'era: l'odore di patatine fritte che si portava appresso Altair all'improvviso sembrava paradisiaco. Anche se rischiava che i senzatetto la assalissero per mangiarsela.

Invece quelli si limitarono ad alzare gli sguardi su di lei e a seguire i suoi movimenti. Decine, fra uomini, donne e mocciosi piagnucolanti, che se ne stavano ammassati come cetrioli in vetro.

Nim si teneva la minigonna abbassata con una mano mentre chinava il busto verso un vecchio dalla testa pelata. Lui allungò il braccio e accettò il sacchetto di carta che gli porgeva.

«Un giorno mi dirai di incontrarci in un posto che non fa schifo al cazzo?» Altair calò la mano sulla spalla della sorella.

Nim saltò su e si girò con la mano sul cuore e gli occhi spalancati. Buttò fuori il terrore con un sospiro, i muscoli si rilassarono piano. «Alai,» mormorò, come per convincersi che fosse davvero lei e non chissà quale stronzo. «Grazie per essere venuta.»

«Che vuoi? Non ti sei messa in testa che devo mettermi a fare beneficenza, vero?»

Doveva essere una battuta, invece Nim assunse un sorrisetto snervante. «È un'idea geniale! Potresti aiutare Pun a sistemare un po' di roba, per esempio.» Indicò un tizio imbacuccato in una giacca troppo grande e un cappello da cui fuoriuscivano delle ciocche unte, intento a spostare scatole piene di cianfrusaglie.

Altair premette la lingua contro i denti, poi si lasciò andare a un sospiro. «Mi prendi per il culo.» Non una domanda, un'affermazione, perché non accettava una risposta negativa.

La Voce della TempestaWhere stories live. Discover now