Capitolo 29

44 5 17
                                    

Mancavano le lettere centrali sull'insegna che lampeggiava sugli scaffali del vino. Il ronzio dei neon che continuavano ad accendersi e spegnersi le si infiltrava nella testa e, come una zanzara, continuava a vibrarle nel cervello. Altair afferrò il carrello con entrambe le mani e buttò il collo all'indietro con un verso gutturale frustrato.

Ancora era lì, l'ombra dei fulmini di Miura, a scombussolarle i neuroni. Le strisciava fra i pensieri e, sebbene non provocasse alcun tipo di dolore fisico, Altair continuava a stringere i denti.

Elettra sbirciava fra le bibite nello scaffale a fianco, picchiettandosi le labbra. La luce del visore si perdeva in quella asettica del supermercato. Scelse una confezione di succo di frutta, e Altair alzò gli occhi al soffitto.

Nessuna delle due pronunciò una sola parola; Elettra indicò il reparto dietro di sé, dove stavano accumulate confezioni su confezioni di cibo in scatola, e Altair le andò dietro.

I ripiani scomparvero davanti ai suoi occhi. Immagini di Miura, di Vega, del modo in cui quest'ultimo aveva distrutto mezzo stabilimento dopo l'incontro con il vecchio, presero il suo posto. Poi Altair ripiombò con i piedi nel supermercato silenzioso, e i pensieri cavalcavano un'onda che nemmeno riusciva a seguire. E quelle due cazzo di lettere continuavano a ripetersi ancora e ancora, fino a toglierle la capacità di concentrarsi su qualcosa cosa non le riguardasse.

S.d.

Elettra mise nel carrello alcuni barattoli di noodles istantanei, poi prese a giocare con la zip della scollatura.

«Mangi solo cibo già pronto, tu?» Altair si appoggiò con il busto contro il manico.

Elettra si tirò i capelli indietro, perdendo quel poco che restava della messa in piega. «Non sono mai stata una tipa da fornelli.»

«Ma va'. Non l'avrei mai detto, dalla signorina Perfettina.»

La zip andava su e giù. Scopriva di poco il solco fra i seni, solo per nasconderlo subito dopo. «Ti assicuro, sono tutto tranne che perfetta. Una volta ho quasi fatto saltare la cucina.»

Altair afferrò l'interno del labbro fra i denti e tirò fino a sentire il sapore del sangue. «Quasi?»

«Ho evitato l'incendio, ma per la cena non c'è stato molto da fare.»

«Sempre meglio che far saltare l'intero impianto elettrico mentre cerchi di attaccare la televisione nuova,» borbottò Altair con una scrollata di spalle.

Si aspettava un risolino o un sorriso o qualsiasi cosa, invece Elettra accomodò un'altra scatola di noodles nel carrello. Il suo silenzio assordava più di qualsiasi parola, insieme all'eco dei suoi piccoli passi verso un nuovo scaffale.

Altair spinse la punta della scarpa contro la ruota del carrello. La fece girare sul posto un paio di volte, prima di seguire l'altra lungo i reparti deserti. La trovò immobile ad attenderla. Un manichino che sfoggiava un fisico rinchiuso in abiti sbagliati, abiti che la dipingevano con colori che non le appartenevano. Eppure, proprio come un manichino, si appropriava del rosso e del nero dei vestiti di Altair e li rendeva diversi.

Sbagliati e adatti allo stesso tempo.

Altair le spinse il carrello contro il sedere per convincerla a camminare. Elettra la accontentò senza replicare.

Raccolsero biscotti, patatine e altro cibo di dubbia qualità. Altair si preoccupò di prendere delle lattine di birra. Alzò il dito medio in risposta al naso arricciato di Elettra mentre le appoggiava sopra il resto della spesa.

«Dovresti...»

«Non sei mia moglie,» la interruppe Altair. Sapeva già cosa avrebbe detto, glielo leggeva sulla sua faccia piena di giudizi del cazzo. «Non sono affari tuoi se voglio ubriacarmi fino a vomitare.»

La Voce della TempestaWhere stories live. Discover now