Capitolo 36

36 6 26
                                    

I muri del nuovo appartamento la accoglievano con i loro quadri già appesi: arte astratta, pennellate di colore messe senza un apparente senso. Un tavolo grande abbastanza da ospitare almeno sette o più persone riempiva il centro dell'ingresso.

Miura si passava una mano sul mento. Contemplava uno dei quadri, dove un'onda blu e verde si scontrava con una arancione. Elettra attendeva dietro di lui. Gli occhi le bruciavano. Si bloccava il polso destro contro il corpo per resistere all'urgenza di togliere il visore. Quello non era il momento di essere fragile.

Se solo Vega le avesse risposto al telefono. Se solo fosse stato lì...

«Questi li ho messi io.» Miura si girò verso di lei. La cravatta gli ricadeva addosso più storta del solito. «Li ho scelti a gusto personale, ma ho pensato fossi tipa da arte astratta. Lo so che non ci vedi, ma puoi sempre ammirarli quando hai il visore.»

Elettra evitò di rispondergli che no, non lo era affatto, e che anzi l'arte astratta non l'avesse mai compresa. Macchie di colori, forme ammassate senza un preciso senso potevano significare qualsiasi cosa. Qualsiasi fossero i sentimenti dell'artista, mancavano gli elementi che li collegassero con gli spettatori. Ciò che restava non era altro che uno specchio.

Ognuno avrebbe interpretato le sfumature di verde e di blu e di arancione sulla base di come si sentiva. Ma dell'artista cosa restava?

Miura si piegò le maniche della giacca. Quel giorno il bianco non appariva immacolato, una macchia scura faceva capolino dal colletto. «Fai pure un giro, se vuoi. Ormai questa è casa tua.» Voltò la testa da una parte all'altra e scrollò le spalle. «Volevo trovarti qualcosa di più grande, ma ho dovuto arrangiare tutto in fretta e furia. Spero sia di tuo gradimento.»

Con il pugno chiuso e il braccio ancora premuto contro il fianco, Elettra mosse un passo in avanti. «Quando hai intenzione di finirla con questa pagliacciata?»

L'espressione di lui si frantumò. Il sorriso affabile si trasformò in una linea stretta. Le piccole rughe attorno agli occhi si accentuarono. Durò meno di un istante, e la finta gentilezza tornò a nascondere le sue vere intenzioni. «Come? Temo di non capire di cosa stai parlando.»

Elettra chiuse le palpebre. Le pupille le mandavano fitte continue. «Che senso ha continuare a fingere? Perché non puoi dire direttamente cos'è che vuoi da me?»

Miura allargò il sorriso, e questa volta appariva sincero. Il divertimento gli riluceva negli occhi. «È divertente, perché potrei rivolgerti la stessa esatta domanda.»

I muscoli le si irrigidirono. Spostare anche solo un dito le sembrò un'impresa titanica. Pesava, tutto di lei pesava, e la gravezza dell'atmosfera le si appollaiò sulla schiena. Si ritrovò con il collo piegato verso il basso perché non disponeva della forza per tenerlo dritto.

«Secondo te cos'è che voglio da te?» le chiese.

Le fughe del pavimento erano immacolate. Si intersecavano fra loro in un motivo regolare, a quadri.

«L'hai sempre saputo che ti avrei tradito, no? Perché continui a trattarmi come se nulla fosse?» Le parole le uscirono tutte insieme, non attraversarono il cervello prima, vennero fuori e basta. Acide e disperate.

Miura congiunse i palmi di fronte a sé. Osservava con fin troppa attenzione le sue stesse unghie, come una ragazzina che si controllava lo smalto. «Hai saputo della morte della Furia Rossa.»

«Ho saputo che hai provato a ucciderla,» lo corresse. E si rese conto troppo tardi che forse avrebbe fatto meglio a tenere la cosa per sé. Premette le labbra l'una contro l'altra e voltò il capo.

«Oh. Vuoi dire che è ancora viva?»

«Non è questo il punto.»

Lui allacciò le mani dietro la schiena. «E allora qual è?»

La Voce della TempestaWhere stories live. Discover now