Capitolo 43

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Lo stabilimento abbandonato non era mai stato tanto freddo. Elettra si strinse le braccia al petto, aggrappata al proprio maglione blu. A occhi chiusi, respirava l'aria stantia e la polvere che volava verso il basso, formando piccoli vortici. Aprì le palpebre e, oltre lo schermo del visore, i mobili vecchi e semidistrutti giacevano in un silenzio glaciale. Nel tempo, qualcuno aveva aggiunto alla collezione una vetrina vuota, un frullatore rotto e una libreria con un ripiano penzolante. La luce asettica che penetrava da fuori proiettava delle ombre oblunghe, magroline.

Lì era iniziato tutto. In quel luogo spettrale, lo sgangherato gruppo di ibridi aveva preso vita.

Per questo sarebbe stato lo stesso posto in cui tutto sarebbe finito.

Dei passi si avvicinarono. Elettra lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi e sollevò il mento; a giudicare dai rumori doveva aspettarsi almeno due persone, tuttavia solo Miura varcò l'ingresso. Lo riconobbe subito, nonostante l'ombra lo avvolgesse mentre le andava incontro. Poi la luce gli illuminò metà del volto, e lui si arrestò.

«Dov'è mio figlio?» Diretto, accigliato, secco.

Elettra mostrò un sorrisetto. Aveva sortito l'effetto desiderato. «Non devi preoccuparti per lui.»

Lui si aggiustò le maniche con movimenti bruschi, quasi come se volesse strappare la stoffa. «Non ho tempo per i giochetti, Elettra. Sul biglietto hai scritto che vi avrei trovati qui, ma mi credi così stupido da non riconoscere una minaccia?»

«Certo che no.»

«Allora che senso ha tirare mio figlio dentro tutta questa storia?»

«Curioso che sia proprio tu a dirlo.» Elettra alzò un sopracciglio, consapevole che forse l'altro non l'avrebbe visto a causa del visore. Non aveva importanza, perché il sorriso appena accennato, quello da strafottente che la gente intorno a lei sapeva fare tanto bene, bastava e avanzava. «Ho solo copiato la tua strategia, dopotutto.»

«Con la differenza che la tua versione non ha senso,» disse lui.

Elettra scrollò le spalle. «Volevo farti incazzare e ce l'ho fatta.»

«Per quello ci eri già riuscita quando hai finto di portare a termine gli ultimi incarichi. Cosa speravi di ottenere, di preciso?»

Senza Vega, Haruka e Altair, occuparsi delle richieste dei clienti di Miura spettava a lei. Non si era rifiutata, semplicemente aveva riferito di aver compiuto le missioni quando in realtà non ci aveva nemmeno provato. Come sistema era destinato a durare poco, ma le aveva fatto guadagnare del tempo per preparare il rapimento del piccolo Jin.

Elettra si conficcò un'unghia nel polpastrello, nel punto in cui il gelo le prudeva. «Questo,» rispose solo.

Miura batté le palpebre, con l'aria di chi non capiva cosa le passasse per la mente. Ed era giusto così, uno come lui non poteva comprendere. «Questo? Cosa, un tentato suicidio?»

«Ci ho riflettuto,» gli spiegò, «a lungo, in realtà. Ho capito che è vero, che mi piaccia o meno, porto morte ovunque vado.» Dentro di lei, i fulmini cominciavano a svegliarsi. Pigri, si sollevavano e si preparavano a scontrarsi con l'energia di lui, che tanto li disgustava. «Ma ho deciso che nessuna persona innocente morirà più per mano mia. Se proprio devo portare morte, allora la porterò agli stronzi come te.»

Il discorso lo rabbonì, per qualche motivo. Grattandosi la barbetta incolta sul mento – stonava davvero con il suo solito aspetto immacolato – Miura emise un sospiro. «Lodevole. Davvero lodevole. Ognuno combatte i sensi di colpa come può. Peccato non cambi il fatto che non puoi affrontarmi.»

Non le diede il tempo di replicare né di accettare la voce interiore che le gridava che aveva ragione lui: con il braccio sollevato, Miura emanò una scarica di fulmini dalle dita.

Elettra chiuse gli occhi e abbracciò la sensazione della sua energia che le entrava nella testa. Le saette di lui strisciavano a zonzo, e prudevano al punto che lei provò la tentazione di infilarsi le unghie nel cervello pur di farle smettere. Ma trattenne gli istinti e ordinò ai propri fulmini di combattere.

Agli stessi fulmini che le mandavano scariche di sofferenza dritte nel petto. Agli stessi fulmini che aveva rinchiuso dentro di sé per tutto quel tempo.

Le lasciarono una scia blu attorno al cuore mentre risalivano fino alla testa, e lì si avvilupparono alle saette di Miura. Le scacciarono con forza, le costrinsero a ritirarsi.

«Dov'è mio figlio?» Al grido di Miura si unì un nuovo attacco.

Elettra la immaginava la lotta dentro la sua testa, vedeva tanti soldati fatti di fulmini che si affrontavano per conquistare il campo di battaglia. I suoi vestivano di blu e di bianco, mentre quelli di Miura di nero. L'esercito nemico però non era unito come al solito. Le truppe si agitavano scomposte, vittime di una rabbia incontrollata, e si ritirarono sempre più.

Poi il prurito terminò. Rimase solo il crepitare del blu e del bianco, e il nero scivolò via.

Quando Elettra riaprì gli occhi, il braccio teso di Miura tremava. Nella sua espressione si leggeva una domanda, "come?", tuttavia lui non disse nulla.

Il blu colorava il cuore di Elettra. Le regalava scariche di dolore di tanto in tanto che la lasciavano senza fiato, ma non tentennò. «Mi spiace, non funziona due volte.»

E adesso era il momento. Senza il controllo mentale, Miura non era altro che un uomo qualsiasi. Senza la capacità di manovrare gli altri, Miura era vulnerabile quanto qualsiasi altra persona.

Elettra lasciò uscire i fulmini. Calmi ma distruttivi, quelli si attorcigliarono gli uni agli altri di fronte a sé, in una barriera elettrica. Pronti ad attaccare. Pronti a uccidere.

Scattarono in avanti e si fermarono a mezz'aria, al suono della risata di Miura.

«L'ho sempre detto che sei eccezionale,» disse lui. «Avrei dovuto capirlo che una come te non si può tenere in gabbia. Sei una leader, proprio come lo sono io.» Schioccò le dita con una tranquillità che la irrigidì. «La differenza è che io non sono solo, ho un braccio destro.»

Un'altra figura entrò nello stabilimento. Imponente, scura e rigida. Vega si affiancò a Miura, lo sguardo basso e uno scudo fatto di fulmini intrecciati fra di loro che gli pendeva lungo il fianco.

«Vega,» sussurrò lei.

«Mi dispiace,» mormorò lui.

Miura gli batté una pacca sulla spalla e lasciò la mano lì, con le dita lunghe e affusolate che lo tenevano nelle loro grinfie come le zampe di un ragno con la preda. «Dispiace anche a me che sia finita così, a quanto pare ho sbagliato tutti i calcoli. Vega, a te il compito di convincerla a dirmi dov'è Jin.»

Non lui.

Non Vega.

Non poteva combattere contro di lui. Miura era un conto, lui meritava di morire, meritava una punizione, meritava la sua ira. Ma Vega... Lui era uno dei motivi per cui stava lottando.

Elettra non riuscì a muoversi. La barriera di fulmini che la proteggeva si infranse. Il cuore le martellava nelle orecchie. La Tempesta le urlava nella testa. Prese in pieno il colpo dello scudo di Vega: le saette le scoppiarono contro il fianco, le bruciarono i vestiti e raggiunsero la pelle in un istante; poi Elettra volò via, verso l'alto, e i polmoni si bloccarono, impedendo all'aria di entrare.

Si puntellò sui gomiti per sollevare il busto. Vega era già su di lei, e le tirò un calcio sul mento che la mandò di nuovo a terra. Il visore le scivolò dal viso, cadde con un sonoro crack da qualche parte nel buio.

La luce di Vega inondava una piccola porzione davanti a lei. La dualità della sua energia più ovvia che mai, due forze che si scontravano, e lui gobbo, incapace di guardarla. Non esisteva nient'altro, oltre a loro due.

Proprio come i giorni passati a casa di lui, seduti sul pavimento con le mani intrecciate.

Io non sono mai riuscita a combinare niente di buono, diceva lei.

Lo stai facendo adesso, però, rispondeva lui. Aveva avuto torto, alla fine ne erano venuti fuori solo casini.

Eppure, il ricordo delle sue parole la scaldò. Forse il compito di Elettra non era mai stato quello di uccidere Miura per liberarlo. Forse il suo unico compito era di mostrargli che poteva combattere da solo.

Si rialzò a tentoni nel buio. «Guardami,» gli disse.

La Voce della TempestaHikayelerin yaşadığı yer. Şimdi keşfedin