IV. Nella notte - prima parte

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Sembrava di essere finiti nel cesso dell'aldilà più che in un aldilà vero e proprio.

Russi: la solita megalomania.

Una volta, non molto tempo prima, avevano incontrato un russo asiatico mentre attraversavano la Transiberiana, lui e Aisha. L'uomo veniva da Zabajkalsk, città di confine, il tipico posto dove si impara che la frontiera non è sulla carta, ma da tutt'altra parte.

Aveva detto a entrambi, mentre la Siberia scorreva bianca e infinita dietro il finestrino: «C'è una distorsione nell'anima russa ed è il suo enigma, che deriva dalla grandezza di questa terra perché non è possibile, guardate, come si può non essere condizionati, dico io: le repubbliche federali, questo arcipelago di Stati in disgregazione, più etnie che anime... Tutto si spappola in un'incommensurabilità senza forma. L'uomo non è fatto per tutta questa immensità.»

È una cosa che può far diventare pazzi, pensava Ilyas.

«Che vuoi?»

«Black Russian ne avete?» chiese piattamente, appoggiandosi al banco da dove il barman poco cordiale serviva cocktail e parolacce.

«Qui abbiamo tutto, bello.»

«Glielo offro io» fece una voce e Ilyas si voltò per incontrare il viso sbiadito dalle luci di un tizio dal pizzetto e gli occhi fatti, che indossava una canottiera nera e una catenina a cui era appeso un crocifisso. Sembrava la patetica copia di un vecchio film di mafia americano.

«Tieni.» Mollò i soldi al barman, intenzionato a far capire al tipo che poteva anche girare al largo, ma lui non desistette.

«Vlad, preparamene altri due. Per il prossimo giro.»

«Che ti bevi da solo, a me basta questo» disse, tamburellando le dita sul banco. Sperava che il barman si muovesse e che quella caricatura umana si levasse dai piedi.

«Oh, che gentilezza. Di' un po', sei nuovo? Non ti ho mai visto qui, da dove vieni?»

«Non è interessante» rispose quasi senza muovere le labbra, gli occhi alla pista, persi nelle luci e negli anfratti dei corpi.

«Io dico di sì. No, sono sicuro di non averti mai visto, ti avrei notato altrimenti. Il mio nome è Zora.»

Ilyas gli scoccò un'occhiata che faceva capire quanto gliene importasse: meno del buco di culo di un bychara. «Anche questo non è interessante.»

Se la penombra lo avesse permesso, avrebbe visto le sue guance imporporarsi di indignazione. Distinse comunque la sua bocca contorcersi. «Ma chi cazzo ti credi di essere, zingaro di...»

«Zora, tuo fratello ti sta cercando.»

Era stata un'altra voce a parlare, più dura, senza strascichi di droga, con un sottofondo irriverente nel suono metallico.

«Cosa vuole quello stronzo?» sbottò il tizio alla figura appena apparsa.

Si trattava di un uomo alto – parecchio –, vestito decentemente: giubbotto di pelle scura sopra spalle ampie e ben definite, jeans neri, maglia di un colore indefinibile con quell'ombra, che gli lasciava scoperta appena una porzione di pelle sotto il collo, dalla quale pendeva una medaglia che aveva tutta l'aria di essere una piastra d'identificazione militare. Spezzata.

Quel su cui si concentrò l'attenzione di Ilyas – oltre a registrare a una semplice occhiata l'imponenza di un corpo che pareva perfettamente calibrato al bilancino –, furono gli occhi: azzurri, di un azzurro puro e intenso che ricordava le lande più gelide, desolate e belle di quella terra senza fine che faceva impazzire gli uomini.

Wolfen - Vol. 1Where stories live. Discover now