XIX. Fortezze - prima parte

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«Questi giardini si chiamano come te, Aleksandr.»

«Sasha» disse, d'istinto. Immediatamente si morse la lingua. «Volevo dire...»

«Non capisco perché insisti a farti chiamare col tuo diminutivo invece che col tuo nome vero.»

Se era una domanda era soave, senza accusa, ma lui si agitò lo stesso.

«Ci sono già così tanti Aleksandr in famiglia, zio, io vorrei...»

Voleva distinguersi? Era per questo che si faceva chiamare così?

«Ho sempre amato il nome Aleksandr» lo interruppe Boris Novikh, pacato. «Fa pensare alla grandezza e in effetti significa questo. Sergej no, Sergej significa "servo". Era il nome di mio padre, lui che non ha mai servito nessuno. Lo trovo un interessante paradosso.»

«Per questo ha chiamato i suoi figli così?»

«Dammi del tu, figliolo. Quante volte devo ancora ripeterlo?»

«Sì... certo...»

Era difficile per Sasha soffocare la soggezione che anche il semplice guardare lo zio gli ispirava.

«Guarda questi giardini.»

Con lo sguardo il Vor abbracciò la vegetazione rigogliosa del parco che circondava la fortezza del Cremlino. Il sole baluginava alto rifrangendosi in riflessi, donando alle chiome degli alberi una sfumatura di alga marina; era un sole come se ne vedeva di rado e che da giorni si era impossessato del cielo vetrato di Mosca.

«Non ti trasmettono un'idea di grandezza come il palazzo di Ekaterina della tua città? Furono costruiti in onore dello zar Aleksandr I mettendo al centro la torre Kutaf'ja. I cancelli sono ancora quelli eretti per commemorare le vittorie dell'esercito imperiale russo contro Napoleone. È stato invece demolito l'obelisco dei Bolscevichi.»

«Non era stato eretto per omaggiare i Romanov?»

Suo zio smise di guardare i giardini per rivolgergli uno sguardo sorpreso. «Sì, prima della Rivoluzione, poi fu rielaborato dai Bolscevichi. Come fai a saperlo?»

«L'ho letto.»

Un sorriso sottile, quello che sempre inquietava Sasha, distese le labbra dell'altro. «Ti piace la Storia?»

«Beh, "piacere" è una parola grossa. Mi interessa.»

Invece di attenuarsi quel sorriso si allargò. «Bene, molto bene. Vorrei che Sergej seguisse il tuo esempio, che desse più attenzione ai libri che alla kradija

Sasha non trovò niente da ribattere a quella affermazione. Era un po' imbarazzato; cercò di nascondere il disagio chiedendogli che fine avrebbero fatto quei giardini quando il progetto del nuovo Cremlino avrebbe preso forma.

«Li trasferiremo altrove. Una base militare non ha bisogno di fiori. Sarà un peccato; è sempre un peccato rovinare le cose belle.»

Si erano avvicinati alla Torre centrale dell'Arsenale. Lì il rumore delle ruspe era più forte: avevano già iniziato i lavori in quella parte della fortezza, abbattendo la prima cinta muraria del parco. Mentre passavano, molti uomini chinarono il capo e salutarono suo zio con reverenti "Vor" e "Master Belyi".

Una cosa che aveva notato, Sasha, sin da quando era bambino: nessuno al di là dei suoi familiari chiamava suo zio per nome. C'era sempre un titolo onorifico ad accompagnarlo, o il suo soprannome, come se pronunciare il suo nome equivalesse a una bestemmia in chiesa, una mancanza di rispetto.

Il nome Boris Novikh, ecco, quello sì che aveva un significato vero, non una semplice eco etimologica. Voleva dire "impero". L'impero di ghiaccio, come lo chiamava il suo defunto zio Vladimir. Un impero enorme, silenzioso e sempre in movimento come un iceberg. Proprio come un iceberg se ne poteva vedere solo la punta affiorante e il materiale di cui era fatto – droga, appalti, armamenti, uranio e traffici umani – si scioglieva in liquidità evaporando, volatilizzandosi, per materializzarsi di nuovo in superficie, di nuovo immacolato.

Wolfen - Vol. 1Where stories live. Discover now