XXVI. Ferite aperte - seconda parte

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Buio. Ancora.

Solo questo riusciva a vedere, solo il buio, una tenebra densa, corpuscolare, che non aveva nulla dell'inconsistenza dell'ombra, che pesava, pesava tanto, sentiva che lo inghiottiva, lo schiacciava, che consumava ogni punto di riferimento.

C'era un'unica striscia di luce che filtrava attraverso un buco praticato nel doppio fondo della macchina. I fori per far passare l'aria. Un misero scampolo di luce, grigia e tenue. Oscillava fugace come una promessa non mantenuta. L'aria era troppo spessa, trasudante esalazioni. Odore di benzina. Il fondo duro, freddo. La sensazione vischiosa, paralizzante di stare affogando – di stare morendo.

«Andrej?»

Non li avevano imbavagliati, almeno questo. Andrej voltò il capo, provò a cercare l'altro nel buio.

«Ci sei?» chiese.

Avrebbe voluto fosse una domanda normale, ma aveva tremato.

«Ci sono» disse Sereb. La sua voce calma e netta era una presa alla realtà che si stava sgretolando attorno a lui. «Sono qui.»

***

La luce ritornò accecante, gli fece chiudere gli occhi per il fastidio. Una faccia solida e bianca aleggiò sul fondo appena scostato. Si sentì sollevare come fosse un sacco vuoto.

«Eccoci qui, ragazzi.»

Andrej, con le gambe percorse da fitte dolorose per la forzata immobilità, si accasciò contro la parete del camion appena riemerse dal fondo, la testa che gli girava. Il vulkulaki che lo aveva tirato fuori si chinò a prendere anche Sereb – non aveva afferrato i loro nomi; sapeva solo quello di quel senziente, Misha, poi aveva colto quello del mongolo, Kirsan Lazar, e gli sembrava di aver capito che l'unica donna della compagnia si chiamasse Ioanna.

«Sentite voglia di vomitare?» chiese il tipo.

Lui si limitò a scuotere la testa, Sereb sibilò un mezzo ringhio.

«Ehi, stai calmino, tu. Vuoi un altro paio di lividi da accompagnare agli altri?»

«Liberali» ordinò una voce fredda e Andrej, alzando il capo, vide di nuovo Misha fuori dal camion, che li fissava avvolto dalla pallida luce del mattino.

Il tipo obbedì immediatamente. Tolse sia ad Andrej che a Sereb le manette con cui gli avevano legato i polsi e le caviglie. Andrej si massaggiò i polsi, incrostati di sangue secco. Non si sentiva più le mani oltre che le gambe.

«Siamo arrivati?» riuscì a chiedere – gracchiare –, ma il tipo non rispose e Misha gli lanciò una lunga occhiata gelida che lo fece rabbrividire.

Beh, grazie tante, era solo una domanda, pensò e non trattenne un sospiro.

Essere arrivati dove, poi? Non aveva idea di dove stessero andando.

Ad apparire accanto a Misha fu la donna.

«Come vi sentite?» gli domandò e senza aspettare risposta entrò nel camion, si chinò davanti a loro.

Sereb si scostò, mentre Andrej rimase fermo. Fece solo un cenno del capo, che gli provocò un capogiro. Non sapeva quante ore fosse rimasto disteso là sotto, nel fondo della jeep. Da quando era iniziato quel viaggio, nella notte, in fuga da Mosca, aveva contato solo una pausa e questa era la prima volta in cui vedeva la luce del giorno.

La donna, Ioanna, lo scrutò a fondo, gli chiese di fargli vedere i polsi. Andrej glieli offrì come un condannato offre il collo alla falce del boia. Forse stava diventando melodrammatico. Le conseguenze di essere rapito, senza dubbio. Non disse nulla mentre la donna lo esaminava. La vide prendere qualcosa da una cassetta, un qualche medicinale che gli applicò sulle ferite. Digrignò i denti al bruciore, ma continuò a restare in silenzio. Lei alla fine gli avvolse i polsi con delle garze e gli chiese se riuscisse ad alzarsi. Andrej lo fece, anche se malfermo.

Wolfen - Vol. 1Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora