XVII. Una giornata di sole - prima parte

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Entrò senza guardarlo, come faceva sempre.

«Buongiorno» fece Andrej, sollevando lo sguardo dalla tazza di caffè. A lui avevano insegnato a essere educato; un "buongiorno" non lo si nega a nessuno.

Da parte di Sereb un grugnito non meglio identificato. Si diresse verso la dispensa e tirò fuori un bicchiere. Si fece il caffè da solo, le spalle ad Andrej. Il silenzio si spandeva nel cucinino senza essere scomodo. Aveva ormai assunto una dimensione abituale, quasi confortevole.

Sereb si sedette di fronte a lui con la sua colazione: caffè, che beveva amaro, e una fetta di pane con un filo di burro sopra. Nient'altro. Dalla finestra la luce di quella mattina straordinariamente luminosa si infrangeva sui suoi capelli, bianchi come un nevaio. Andrej spesso si ritrovava a contemplarli senza neanche rendersene conto: lo sguardo vi cadeva come guidato, incantato dal loro candore e, quando se ne accorgeva, lo distoglieva in fretta, preda dell'imbarazzo. Non avrebbe dovuto guardarlo così, lo sapeva.

Anche Sereb ora lo stava fissando.

«Ma tu stai sempre qui?» gli chiese, asciutto. Aveva i gomiti puntellati sul tavolo, gli occhi socchiusi, due schegge nere fisse su di lui.

«Oggi è domenica.» Andrej sorseggiò il suo caffè con lentezza. «Nella druzina non c'è molto da fare questi giorni.»

Dalla Maslenitsa Sergej era di umore nero, per non dire funesto. Andrej aveva saggiamente deciso di approfittare del favoritismo nei propri confronti prendendosi dei giorni di "ferie".

Pensò all'assonanza che c'era tra quei due nomi, Sergej e Sereb. Se pensava a Sergej però pensava ai suoi occhi del colore del ghiaccio sporco, al suo sorriso crudele, alle sue mani che sapevano infliggere piacere e dolore dallo stesso palmo e nello stesso momento; Sereb invece gli faceva pensare a una landa bianca, bianca e pura, sconfinata.

Intento a ruotare il cucchiaino nella tazza, osservava il suo ospite di sottecchi, come si era abituato a fare da quando era iniziata quella strana convivenza forzata.

Quel ragazzo era schivo, parecchio. Non che non se lo fosse aspettato, ma pensava che, abitandoci insieme, anche se per necessità, l'altro si sarebbe un po' scucito. Invece niente: alle domande continuava a rispondere a monosillabi; si alzava presto, sempre troppo presto per qualcuno che non aveva nulla da fare durante il giorno; faceva colazione e poi usciva. Andrej a volte lo seguiva, quando poteva, perché doveva controllarlo come aveva richiesto il Vor. Sereb era infastidito, si vedeva, ma più che altro faceva finta di non vederlo. Esplorava la città: spesso alzava il capo e allargava le narici. Andrej si chiedeva se stesse cercando quel qualcosa che lo aveva portato fino a lì, un odore, una visione o un sogno, a sentir lui. A casa parlava il meno possibile, le occasionali risposte alle sue domande.

Ti sei ricordato da dove vieni?

Come sei finito qui?

Ricordi altro oltre il tuo nome?

Perché non riuscivi a trasformarti?

Sei arrabbiato con me?

Quest'ultima domanda non gliela poneva, in realtà. Solo un cieco non si sarebbe accorto di non rientrare nelle sue simpatie. La diffidenza iniziale non si era smorzata e Andrej era sconfortato: vivere con uno che si sente imprigionato non era quel che si era prefissato di fare quella primavera.

«Questa sera c'è l'iniziazione della figlia di Vosikiev» buttò lì, cauto, lo sguardo immerso nel caffè nero e bollente.

Sereb sollevò gli occhi.

«Potresti conoscere altri tuoi simili. La comunità vulkulaki di Mosca, intendo.»

Si aspettava un secco "non mi interessa", invece lui chiese: «La figlia?»

Wolfen - Vol. 1Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora