XX. Nel limbo - seconda parte

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Come anticipato, ecco qui il disclaimer: non ci sono scene violente, c'è stata più violenza (descritta) in altre parti e ce ne sarà in altre, ma ciò che segue, il colloquio tra Ilyas e il generale Jagun, è abbastanza... forte. Per quel che viene detto/ricordato ma soprattutto alluso; ciò che emerge tra le righe. Un rapporto del tutto disfunzionale, inquietante, violento, non solo fisicamente. Eppure anche simbolico, complesso. Proprio per questo potrebbe risultare più disturbante di una carneficina, non so. Dipende anche da come uno è fatto.

Per sicurezza segnalo quindi: se certi argomenti sono dei trigger per voi, magari saltate o comunque maneggiate con cura. Io spero solo di aver fatto, con questa parte e altre future, un lavoro rispettoso, che abbia saputo gestire la delicatezza del tema *si dilegua*


XX. Limbo - seconda parte


Nel tempo che i soldati ci misero per spingerlo dentro, fare dietrofront e richiudersi la porta dietro le spalle, quel su cui si concentrò Ilyas fu non abbassare gli occhi. Il primo impatto è tutto, gli aveva sentito dire anni prima. Quando fissi una belva negli occhi, devi essere sicuro che abbassi lo sguardo per prima. Altrimenti è meglio uscire subito dalla gabbia.

Non avrebbe abbassato gli occhi, questa volta no.

Nessuno dei due parlò per un tempo considerevole. Ilyas stava vicino alla soglia della porta come se ce lo avessero inchiodato. Il generale non portava armi, registrò a una veloce occhiata; non aveva neanche la sua pistola di ordinanza. Ma non era una sorpresa: non è la frusta che devono temere le belve, bensì il domatore; anche questa era una frase che gli aveva sentito dire.

Passarono altri attimi spersi prima che l'altro prendesse parola. «Tenente.»

«Generale.» Si accorse di avere la gola secca. «Cosa ci faccio qui?»

«Dobbiamo parlare.»

L'uomo stava dietro una scrivania, in piedi dall'altra parte della stanza, e non sembrava intenzionato ad accorciare quella distanza. Ilyas rimaneva comunque vigile, pronto a reagire al minimo movimento. Tutti i suoi sensi erano in allerta come se si trovasse davvero all'interno di una gabbia, avvolto da catene invisibili ma non per questo meno tenaci.

«È un anno che ti cerco» continuò Bezbòznij con la sua voce senza inflessioni, fredda e atona, mentre i suoi occhi erano vivi, vivi e intensi, e non lo lasciavano. «Più di un anno. So quello che hai fatto.»

Un brivido lento e gelido gli attraversò la colonna vertebrale, ma sperò di aver mantenuto l'espressione impassibile.

«Hanno provato a depistarmi. Mi hanno detto che avevi disertato, come tanti, che non dovevo preoccuparmi, non era compito mio rintracciare un soldato sfuggito ai ranghi, che era un rischio calcolato, una perdita collaterale, ma io so, lo so, che non te ne sei semplicemente andato. Che hai fatto qualcosa quella notte, quando tu e tua sorella siete spariti. L'hai fatto usando la mia piastra di identificazione. Non ho nessuna prova, ma lo so. E ora voglio sapere cosa.»

Ilyas non rispose.

«Mi hai sentito?»

L'uomo continuava a stare fermo, uno stato di quiete solo apparente. Come un leone prima dell'attacco. Come Shanna. In lui Ilyas aveva sempre visto qualcosa del suo leopardo: come uno scatto felino nascosto sotto la divisa, le mostrine e le medaglie d'onore; un morso sottopelle – calmo, fluido, tenuto a bada. E questo sin dall'inizio, da quando lo aveva conosciuto: si era subito reso conto che la gerarchia tra loro non era rigidamente confortante come voleva far credere il codice bellico, che con lui era come essere nella forra, nell'aperta steppa sotto il cielo nudo e impietoso. Jagun Bezbòznij non era un vulkulaki, ma era più pericoloso di tutti i simili che aveva incontrato. Un uomo che non era una belva; un uomo che le belve le sottometteva. Un cacciatore per diritto di nascita, il nemico naturale di un lupo.

Wolfen - Vol. 1Where stories live. Discover now