XIII. La notte della trasformazione - prima parte

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Quei giorni di festa scorsero come acqua tra le dita. Aisha non partecipava ai giochi, né granché ai festeggiamenti: la sera si metteva in un angolo, beveva qualcosa, mangiava, osservava. I suoi occhi perlustravano l'accampamento, soffermandosi sulle persone. Aveva imparato da tempo che l'invisibilità può essere un vantaggio da custodire gelosamente.

Ilyas si era rilassato: la vittoria al lancio dei coltelli aveva avuto un effetto inaspettato su di lui. Divenne quasi cordiale, nei suoi limiti. Di certo alcuni membri della druzina iniziarono a guardarlo in maniera diversa.

«Perché non provi il poligono? Sei brava a sparare» le diceva.

Lei faceva spallucce. «Non mi interessa.»

E, davvero, non le interessava. Mettersi in mostra, unirsi al clima goliardico, sfidare altri o se stessa; non ne sentiva il bisogno. Fosse stato per lei avrebbe voluto avere la stessa consistenza della neve che cade leggera dal cielo, sciogliendosi una volta che tocca il suolo.

Era il terzo giorno di festa quando Sasha le chiese di andare a sparare insieme. Glielo chiese con un po' di rossore sulle guance, più acceso nell'aria fredda del mattino. Si vergognava a dirlo in giro, ma non era molto bravo e magari lei poteva aiutarlo. Ilyas, che si era alzato proprio in quel momento, li sentì e li seguì. Aisha non gli aveva ancora detto che aveva raccontato al nobile la loro storia, però era riuscita a convincerlo a non attentare alla sede della Bratstvo prima di avere un piano decente.

«Ti sei fatta guardinga da un po' di tempo a questa parte» aveva commentato lui.

«Sopravvivenza. Non mi piace questa città.»

Non le piaceva, era vero: era grigia, glaciale, ogni passo rimbombava nel vuoto; sentiva che i pensieri scricchiolavano come ghiaccio sotto la suola delle scarpe appena uscivano dal limbo della mente. Mosca aveva l'algido abbraccio di una zia austera e severa. Persino la neve sembrava più fredda laggiù. Non poteva fare a meno di pensare al Caucaso con le sue vallate tappezzate di grano frusciante e segale verde rame, le conche delle montagne che intrappolavano la luce del sole che scendeva per i pendii, tingendoli d'oro fuso. Le mancava, il Caucaso. A volte le mancava più di quanto sarebbe riuscita a esprimere.

Era un'alba come tante, dai baluginii sbiaditi e il sole ritroso sulla linea dell'orizzonte. Raggiunsero uno spiazzo vicino a un'ansa del fiume, dove nessuno si era accampato. Erano ben distanziati rispetto agli accampamenti, una macchia di betulle li copriva. Davanti a loro si stendeva un campo incolto, regno della cicuta e delle ortiche. C'erano un recinto divelto e recipienti di nafta abbandonati qua e là, bordati di bardana simile a barba di muschio. A una betulla era appeso un pezzo di rotaia. Il cielo grigio pareva gravare su tutto il paesaggio.

«Sembra che ti obblighi a qualcosa» si lasciò sfuggire.

Sasha la guardò. «Come?»

«Il paesaggio di qui, la Russia... sembra ti obblighi a qualcosa.»

In realtà non sapeva cosa stesse dicendo. Da quando avevano iniziato quel viaggio, però, era sicura di un fatto: tutto quel grigio e quel bianco, tutti quegli spazi sconfinati, le suscitavano una sensazione insistente, come se avesse dovuto camminare e raggiungere un orizzonte che non si vedeva. Come se dovesse fare qualcosa, qualunque cosa, che lasciasse un segno inusuale, infiammato.

C'era una parola che i russi utilizzavano per definire il senso di straniamento davanti alla vastità della loro terra: prostory. Era uno dei primi termini che aveva imparato. Equivaleva in qualche modo a "grandiosità", ma significava anche senso di vuoto e nostalgia e, in maniera più astratta, all'assenza di qualsiasi restrizione o vincolo. Ed ecco, pensava confusamente lei: se non ci sono confini davanti a me, se non ci sono limiti che non possa scavalcare, perché dovrei averne io?

Wolfen - Vol. 1Where stories live. Discover now