Capitolo 44

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Suzuka - quarto giorno (domenica mattina)

"Dovrebbe arrivare tra poco."

Spostai lo sguardo verso Angela e, senza proferire parola, le risposi con un singolo cenno della nuca. Lei accennò un sorriso ma dal modo in cui non riusciva a stare un attimo ferma -al contrario di me, che ormai ero piantata sulla stessa mattonella da quasi mezz'ora- capii quanto quella situazione la rendesse nervosa e ansiosa.

Onestamente non potevo darle tutti i torti.

In quegli ultimi tre giorni avevo cercato d'incontrare Lewis nell'hotel in cui alloggiava, nel paddock, perfino nell'area interviste della mia azienda ma in nessuno di questi casi ero riuscita neppure ad avvicinarmi. Lo avevo intravisto ed ero certa che anche lui -nonostante gli occhiali da sole scuri che usava per nascondersi- aveva almeno una sola volta spostato lo sguardo sulla sottoscritta ma nulla di più era accaduto.

Proprio per questo Toto, come mi aveva preannunciato, era stato costretto a coinvolgere nel nostro piano proprio Angela.

All'inizio era sembrata addirittura felice di aiutarmi perché totalmente convinta della mia buona fede però il suo stesso entusiasmo andò scemando quando comprese di dover per forza di cose e almeno una volta tradire Lewis. Lei non lo aveva mai fatto.

Le chiesi d'ignorare la nostra richiesta e fare finta di nulla -non avrei mai voluto essere la causa di un litigio tra loro- ma quella mattina, trovandola sul ciglio della mia stanza d'albergo, compresi che aveva preso la sua decisione.

E fortunatamente, aggiungo, era a mio favore.

Mi aveva fatto entrare di nascosto nel motorhome Mercedes, fatta salire al primo piano senza esser vista da nessuno -soprattutto da Allen ed Anthony Hamilton che sembravano due lupi pronti ad aggredire un agnello- e mi aveva rinchiuso nella sala che veniva utilizzata per lo stretching pre gara.

Sapevo che non mi stesse ingannando e ne ebbi la conferma quando vidi la maniglia della porta bianca abbassarsi.

"Eccomi!"

Erano trascorse ben tre settimane e il mio cuore, inevitabilmente, saltò un battito nel riascoltare quella voce.

Lo vidi entrare già con la tuta da corsa, anche se era per metà sbottonata e allacciata casualmente alla vita, con il suo solito cappello bianco in testa e gli occhiali da sole in mano.
Mi dava le spalle e ovviamente ancora non si era accorto della mia presenza: Angela mi aveva detto di posizionarmi lì, accanto alla porta, cosicché quando lui fosse entrato non mi avrebbe visto e non avrebbe avuto come primo istinto quello di fare un passo indietro e andare via.

Sia lodata questa donna.

"Dove mi metto?" Chiese ancora lui, scrollando le spalle.

Lei, al contrario di me, si era pietrificata sul posto.

Mi lanciò un'occhiata furtiva, poi deglutì.

"Lo sto facendo per il tuo bene."

Senza dire nient'altro o aspettare una sua reazione lo superò e richiuse alle sue spalle la stessa porta che era stata aperta pochi istanti prima.

Fu allora che Lewis, finalmente, si voltò.

Nell'istante in cui il suo sguardo incrociò il mio, sospirò quasi rassegnato, e a primo impatto non sembrò né sorpreso né arrabbiato di vedermi lì.

"Avrei dovuto immaginarlo." Disse, scuotendo la nuca.

"Wow... dopo tre settimane di silenzio, mi sarei aspettata qualcosa di diverso." Controbattei, non contenendo il mio risentimento.

Lui sfoggiò un sorriso sprezzante e, incrociando le braccia al petto, poggiò la schiena sulla parete proprio di fronte a me.

"Che cosa vuoi?"

"Parlarti."

"Questo lo avevo capito: sono giorni che mi vieni dietro."

Strinsi le mani a pugno e respirai profondamente: sapevo che quell'incontro sarebbe stato complicato ma combattere contro la versione superba e beffarda di Lewis Hamilton non era mai stata una delle mie cose preferite al mondo, soprattutto quando quella pacata e razionale dovevo per forza di cose essere io.

"Allen si è inventato tutto" cominciai, facendo un singolo passo verso di lui. "Non ho mai sfruttato la connessione con te per avere una promozione o..."

"Perché Andy -un uomo professionale che conosco ormai da anni e che ha sempre agito per il mio bene- avrebbe dovuto mentire su di te?"

"Non ne ho idea! È dal primo momento in cui mi ha visto che..."

"Dio Jane, inventati una scusa migliore!" Sbottò, alzando gli occhi al cielo.

"È vero!" risposi, allargando le braccia in modo plateale. "Fin da quando ci siamo visti a New York lui era..."

"Perché dovrei crederti?" Mi domandò, interrompendomi di nuovo.

"Sai chi sono Lewis!" dissi, esasperata. "Sono otto mesi che ormai ci conosciamo, tre dei quali abbiamo vissuto ogni singolo momento insieme: pensi davvero che mi sai nascosta per tutto questo tempo? E per cosa poi: favori professionali di cui sinceramente non ho bisogno?"

"Beh, non lo so ma non saresti comunque la prima a farlo!" Urlò questa volta.

La sua arroganza d'improvviso si tramutò in rabbia, ma nei suoi occhi l'unica cosa che mi metteva i brividi era qualcos'altro: la paura.
Ed era la stessa che in quel momento pervase anche me.

La paura di aver fondamentalmente sbagliato tutto.

Lui di avermi aperto le porte della sua vita, di avermi amato troppo facilmente, di non aver dubitato abbastanza, di essersi lasciato andare.

Io di essermi buttata troppo in profondità in questa relazione, di non aver ben capito il suo mondo, di non aver avuto il coraggio di parlare prima.

"A Singapore ti ho chiesto se ti fidassi di me."

Lewis deglutì e per la prima volta abbassò lo sguardo.

"Probabilmente non l'hai mai fatto" continuai, scuotendo la testa. "Ma mi hai tenuta stretta solo per avere sempre qualcuno accanto."

"Non ti permetto di dire certe stronzate Jane!"

"È un dato di fatto Lewis!"

"No, non lo è!" ribatté, avvicinandosi di colpo verso di me. "Mi sono sempre fidato di te, sempre, ma come faccio a crederti dopo tutto quello che ha scoperto Allen?"

Dio, è tutto inutile.

A nulla erano servite tutte le telefonate, i piani concordati, le congetture, i discorsi ripetuti di continuo in mente, le speranze. A nulla, perché Lewis non voleva ascoltarmi e sembrava inamovibile dalle convinzioni che altri gli avevano piantato in testa.

E allora, non sapendo più cosa dire, ne seguì solo il silenzio.

Rimanemmo in quelle posizioni per non so quanto tempo -io sul pavimento, sconfitta e lui in piedi, con in mano ancora i suoi effetti personali e lo sguardo fisso, pensate, sulla sottoscritta.

"Devo andare i box." Disse all'improvviso, quasi correndo verso la porta.

"Lewis" lo ricamai, prima che potesse varcare la soglia. "Non ci sarà più nessun noi se te ne andrai così."

Lui si fermò ed io sperai, ma alla fine mi lasciò.

Photograph - Lewis HamiltonDove le storie prendono vita. Scoprilo ora