Capitolo 28

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Spielberg - Giorno 4 (domenica sera)

"Avrei dovuto lasciarti indossare quelle cuffie."

Dopo aver pronunciato quelle parole, Toto Wolff prese posto proprio accanto alla sottoscritta. Era visibilmente spossato e deluso ma nonostante ciò, la sua compostezza riusciva a preservare quella sua solita eleganza che tutti gli invidiavano.

Con la coda dell'occhio lo vidi poggiare entrambi i gomiti sul piano in marmo, poi indicare al barman la sua preferenza alcolica: dello scotch ambrato che probabilmente aveva il valore del mio stipendio mensile.

"É andata così male?" Gli domandai, voltando la nuca.

Lui bevve in un solo sorso il contenuto del suo bicchiere e fece segno di riempirlo, di nuovo.

Beh, direi di sì.

"Non doveva accadere così" disse, ticchettando le dita sul bancone. "All'inizio di ogni stagione mettiamo in conto la possibilità che possa accadere, ma non in questo modo..."

"Toto penso sinceramente che non bisogna farne un dramma..."

"Lo so" ribatté subito, bevendo di nuovo. "Ma le nostre auto sono state costrette ad abbandonare la gara Jane, ed entrambe per problemi tecnici! Non accadeva dagli anni cinquanta!"

Sospirai e tornai a contemplare il mio vuoto davanti a me.

Non avevo idea di cosa passasse per la testa di quell'uomo e non mi sforzai neppure d'immaginarlo poiché conoscendolo -seppur in modo superficiale- ero sicura che i suoi pensieri fossero talmente ingarbugliati da far uscire letteralmente pazzi, così decisi di prendere le distanze.

Consumai tutto il restante contenuto di vino presente nel mio calice, poi mi alzai, cercando di scostare lo sgabello senza fare troppo rumore.

"Non pensarci troppo Toto!" Dissi, poggiando una mano sulla sua spalla e in risposta ricevetti un grugnito che mi fece ridere.

Attraversai con passo spedito tutta la sala, ignorando quelle -poche- occhiate che ancora mi erano rivolte da sconosciuti e raggiunsi il primo corridoio sulla sinistra: aspettai lì, in piedi, l'arrivo dell'ascensore, poi rispettando la coda di persone che scendevano e salivano, mi ritagliai un posto vicino alla parete e presi il cellulare dalla tasca dei jeans, giusto il tempo di controllare le varie notifiche e giungere al tredicesimo piano. A quella fermata solo io attraversai le porte metalliche e, quasi come se fosse abitudine, mi diressi verso l'unico accesso presente alla mia destra.

Non ci pensai due volte a bussare sulla porta in legno scuro.

"Disturbo?" Chiesi, puntando gli occhi sulla persona di fronte a me.

Lewis sembrò sorpreso di vedermi lì, sulla soglia della sua camera d'albergo, ma il suo sorriso fu solo accennato e fu facile comprenderne anche il motivo.

"Tu mai." Rispose, spostandosi lateralmente per farmi entrare.

Quando la porta si chiuse alle nostre spalle, feci un passo verso di lui e lo strinsi contro di me: le mie braccia s'intrecciarono dietro al suo collo mentre le sue mi circondarono la vita, facendo aderire il più possibile i nostri corpi, e il suo volto si spostò proprio nell'incavo della mia spalla.

"Come stai?"

Lewis brontolò e il suo respiro, a contatto con la mia pelle, mi provocò un brivido.

"Sono distrutto." Rispose, stringendomi maggiormente.

"E cosa vorresti fare?" Gli chiesi ancora, cominciando ad accarezzare i suoi capelli ribelli.

Photograph - Lewis HamiltonDove le storie prendono vita. Scoprilo ora