Capitolo 43

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Dovevo trovare il modo giusto per chiedere a Marzio di accompagnarmi da mia madre quel giorno, ma non sapevo proprio come fare.

Ero stata in strutture ospedaliere più in quella settimana che negli ultimi anni e mi sembrava proprio che il destino avesse voluto giocarmi un brutto scherzo.

Forse dovrei andare a parlargli ora, pensavo camminando avanti e indietro nel mio piccolo ufficio. È nella stanza accanto e non dovrebbe essere troppo occupato.

L'unica interazione che non riguardasse il lavoro era avvenuta solo per discutere dell'imminente firma che avremmo dovuto mettere su un foglio di carta che ci avrebbe dichiarato marito e moglie. E anche quella era stata catalogata come "questione in sospeso", per il momento.

Con un colpo di coraggio, andai da lui. Non sapevo cosa aspettarmi, ma pensare a cosa aspettarmi era anche peggio.

Marzio era seduto alla scrivania, con l'espressione concentrata che aveva sempre quando stava lavorando. Non si era neanche reso conto che avevo bussato e che ero entrata nel suo ufficio. Dovetti schiarirmi la voce per fargli notare la mia presenza.

«Posso aiutarti?» mi chiese, dopo aver visto che ero io la rompiscatole che lo aveva interrotto.

«Mi dispiace, forse sei occupato» dissi. Mi sentivo una bambina dell'asilo che si giustificava con la maestra.

Lui non mi contraddisse. Tuttavia, il fatto che non mi stesse mettendo fretta per parlare o che non mi stesse cacciando era già un buon segno per me.

«Mi chiedevo se questo pomeriggio ci fosse qualcosa di urgente da sbrigare in azienda» esordii. Avevo scelto la strada più lunga piuttosto che quella più corta. Non mi sembrava il caso di chiedergli di punto in bianco: "Ehi, ti andrebbe di venire con me in una casa di cura per chi ha disturbi psichici più tardi?"

Marzio sembrò meditare sulle mie parole. Aveva probabilmente capito che ciò che mi interessava sapere non era realmente la quantità di lavoro che c'era da fare.

«Non devi preoccuparti» disse infatti. «Ho visto che hai preso un altro pomeriggio libero. Puoi andare via tranquillamente.» Probabilmente credeva che la mia preoccupazione fosse aver lasciato indietro del lavoro e, infatti, chinò nuovamente la testa sulle sue scartoffie come se la conversazione si fosse conclusa.

«No, io... mi chiedevo se tu avessi molto lavoro oggi» lo corressi.

Marzio sollevò la testa sorpreso. Di sicuro, non si aspettava che fossi andata da lui per chiedergli una cosa del genere.

«Ho una riunione importante» disse soltanto. I suoi occhi mi stavano scrutando con un pizzico di curiosità e confusione. «Potremmo avviare una collaborazione con delle aziende francesi grazie al tuo amico, se tutto va bene oggi» aggiunse, per chiarire il significato di "importante".

Non mi aspettavo di certo che il direttore della Grimaldi Corporation potesse prendersi un pomeriggio libero su mia richiesta all'improvviso, ma sentii la delusione farsi strada dentro di me.

Feci del mio meglio per evitare che Marzio se ne rendesse conto, ma lui sembrava avere il potere di leggermi come se fossi un libro aperto.

«Daphne, va tutto bene?» mi chiese infatti.

Annuii con un sorriso e, prima che mi potesse fare altre domande, lo salutai con un rapido: «Ci vediamo domani.»

Non mi andava di proporgli il mio strano appuntamento quando era così indaffarato. Sapevo quanto l'azienda fosse importante per lui e, ora che suo padre era in ospedale, di sicuro voleva impegnarsi ancor di più per assicurarsi che le cose andassero bene.

Adesso, però, l'unico modo che avevo per trovare il coraggio di visitare mia madre era immaginare che Marzio fosse lì accanto a me.

Lo immaginai tenermi la mano mentre entravo nella casa di cura, immaginai le sue dita disegnarmi dei cerchi sul polso per calmarmi mentre salivamo al secondo piano e immaginai la sua voce calda mentre mi stringeva in un abbraccio.

«È venuta da sola!» disse con tono sorpreso la dottoressa con cui avevo parlato la settimana prima. Fu come un secchio d'acqua gelata: le sue parole avevano spezzato l'incanto che la mia mente aveva creato. «Sono felice che abbia trovato la forza di venire» chiarì subito, avendo probabilmente notato l'espressione che mi era comparsa in volto.

Annuii accennando un flebile sorriso. Non era facile per me stare lì e vedere mia madre in quelle condizioni.

«Signora Margherita» la chiamò la dottoressa, bussando alla porta prima di aprirla.

Mia madre era di nuovo seduta nella stessa posizione della settimana prima. Era come se non si fosse mai mossa. Stavolta, però, c'erano almeno una decina di bambole sul letto.

«Buongiorno» la salutai. «Sono venuta per la sfilata, come le avevo promesso» le dissi. Non sapevo neanche se si ricordava che ero venuta a farle visita la settimana precedente, ma sapevo che per lei ero poco più che un'estranea. Immaginai la mano di Marzio stringere la mia per calmare il dolore al petto.

Mia madre si voltò con un sorriso luminoso e fece sedere sia me che la dottoressa sulle uniche due sedie presenti nella stanza.

«Sono le modelle quelle?» chiese la dottoressa, indicando le bambole. Mia madre annuì come una bambina felice e io mi resi conto dei vestiti che quelle bambole stavano indossando.

Erano delle creazioni in miniatura degli abiti che mia madre aveva disegnato nel passato e che erano stati i suoi più grandi successi. Li ricordavo tutti. Uno per uno.

Mia madre posizionò il cuscino al centro del letto, dopodiché prese le sue modelle e cominciò a farle sfilare su quella passarella improvvisata. Sembrava una bimba di tre anni che si stava divertendo un mondo con il suo giocattolo preferito.

Io e la dottoressa applaudimmo sonoramente quando tutte le bambole finirono la loro sfilata e lessi il compiacimento negli occhi di una donna che un tempo era stata una grande stilista.

«Mia figlia non è potuta venire oggi» disse però, quando il nostro applauso si smorzò. «La prossima volta che mi verrà a trovare, te la presenterò. E ti presenterò anche mio marito» disse soddisfatta.

Sentivo lo sguardo della dottoressa su di me, ma io ero come paralizzata dopo queste parole.

«Sono sicura che le sarebbe piaciuta molto» dissi alla fine, trovando la forza per parlare. «Quanti anni ha ora?» le chiesi.

Volevo provare a mettermi nei suoi panni. Volevo provare a capirla davvero.

Le mie parole sembrarono averla sorpresa. Mi osservò in silenzio, forse cercando di trovare una risposta a quella semplice domanda. Poi, come se fosse giunta alla soluzione di un indovinello, mi diede una risposta. Ma non era la risposta che mi aspettavo.

«Daphne?» disse sottovoce.

Non aveva detto il mio nome perché ricordava che ero la stessa Daphne che era andata a trovarla la settimana prima. Dai suoi occhi, potevo capire che aveva detto il mio nome perché aveva riconosciuto che ero sua figlia.

Miele nei tuoi occhiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora