8 ~Scherzi del destino~ ✔

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Il medico l'aveva definita come una proliferazione neoplastica di una cellula staminale emopoietica che si traduce in un numero elevato di globuli bianchi anormali.

Mio padre lo aveva guardato con sguardo interrogativo, mia madre aveva alzato gli occhi al cielo emettendo un gemito soffocato, mentre io gli fissavo il collo.

Avrei voluto strozzarlo.

Era di fronte a noi con il camicie lindo e ben stirato, la barba leggermente ingiallita agli angoli della bocca e degli occhiali spessi come fondi di bottiglia. Il tono della voce era calmo e piatto, sfogliava le analisi di mio padre come se fosse al bar e gli avessero appena portato il caffè.

Era avvezzo al dolore.

Probabilmente era abituato a inondare i propri pazienti con un'innumerevole quantità di parole mediche che avevano un unico scopo: mascherare la dura realtà.

È come quando vai a un ristorante chic e ordini un "tataki di tonno pinna gialla in crosta di sesamo nero su ratatouille di verdure in salsa agrodolce con pioggia di pistacchi di Bronte e vellutata di carote e topinambur"; ciò che ti aspetti è un piatto stracolmo di cibo dai mille colori.

Poi te lo servono.

È un semplice pezzo di tonno mezzo crudo adagiato su un letto di verdure.

Quella di papà era leucemia.

Cancro.

***

Il potenziamento divenne la parte dell'allenamento che preferivo.

Facevo cento addominali di fila, salivo sulla corda usando solamente le mani, la sua trama intricata e ruvida mi penetrava nella carne lacerandomi la pelle e facendo fuoriuscire il sangue. Facevo gli squat con il bilanciere, le flessioni con una mano sola e resistevo in verticale per minuti interi senza sbilanciarmi.

Stavo battendo tutti i miei record.

Tenermi impegnata mi permetteva di non pensare a quello che stava succedendo, e sforzare il mio fisico mi faceva sentire soddisfatta, era come se mi stessi punendo.

Mio padre quel giorno, usciti dall'ospedale, mi aveva detto che la leucemia si può curare, che la scienza sta facendo passi da gigante e che la sua non era ancora ad uno stato avanzato. Forse era stato questo che mi aveva permesso di andare avanti, di non cadere in quel tunnel senza via d'uscita che è il dolore.

Mi stavo aggrappando con tutte le forze a quella luce fioca che vedevo alla fine della galleria.

La speranza.

«Fermati un attimo», mi disse Samuele raggiungendomi dopo aver concluso il suo esercizio alla sbarra.

Si tolse i paracalli e poi mi prese le mani, erano completamente rosse, il sangue disegnava rivoli simili a linee spezzate che raggiungevano il polso.

Possibile che non me ne fossi accorta?

«Ti va una pausa?», mi domandò.

Non aspettò la mia risposta e si diresse verso il fondo della palestra dove vi era un rubinetto che di solito usavamo per riempire le bottiglie d'acqua. Lo seguii osservandogli le spalle muscolose, il suo corpo era definito ed armonioso, sarebbe stato perfetto per fare da modello a uno scultore greco.

Arrivati al rubinetto Samuele mi prese le mani e con delicatezza iniziò a grattare via il sangue rappreso. Era la persona più altruista che avessi mai conosciuto, si sarebbe fatto in quattro per chiunque senza chiedere nulla in cambio.

Si nutriva del sorriso degli altri; forse era per questo che, nonostante si sentisse solo e fosse pieno di problemi, le sue labbra erano sempre curvate all'insù. Pensava che il sorriso potesse guarire il mondo e, visto che il mio si stava appassendo come una rosa nata per sbaglio nel deserto, avevo bisogno di lui.

A un passo dal sogno - Let's Make It -Where stories live. Discover now