34 ~Effetto farfalla~✔

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Come previsto avevo passato una notte insonne, neanche Samuele, con le sue parole incoraggianti e le sue premure, era riuscito a tranquillizzarmi. Mi ero rigirata più volte nel letto senza pace, con lo stomaco in subbuglio e sudando freddo.

Prima di coricarmi ero scesa al bar dell'hotel e mi ero fatta fare una camomilla ma era stato tutto inutile, non riuscivo a rilassarmi, cercavo di sgombrare la mente e, invece, non facevo che pensare al mio esercizio, alle punte dei piedi che dovevo tirare e alle gambe che dovevano essere tese nell'enjambèe.

Il risveglio non fu migliore della notte, fu la voce elettrica di Lia a farmi sobbalzare: «Giusy! Sbrigati che ti devo truccare e pettinare!».

«Buongiorno eh!», dissi sbadigliando, «possibile che riesci a pensare ai miei capelli quando tu sei ancora in pigiama?».

Lia era di fronte al mio letto, camicia da notte gialla a pois bianchi e capelli arruffati, le mani poggiate sui fianchi: «Oh mio dio le tue occhiaie», gridò inorridita come se avesse appena visto un fantasma.

«Come non detto», biascicai.

Dopo esserci lavate entrambe e preparate, eccomi lì, seduta sulla poltroncina in pelle della nostra stanza, con indosso il body azzurro che Samuele mi aveva regalato per il compleanno, era bellissimo, brillava con i riflessi della luce elettrica e, la retina a forma di farfalla, creava un effetto "vedo non vedo" sulla schiena.

Lia si era fatta una treccia da pallavolista e aveva già messo, in bella mostra, il badge da accompagnatrice che le penzolava sul petto, io mi osservai allo specchio e non potei non darle ragione, due solchi scuri troneggiavano sotto i miei occhi nocciola, speravo che un po' di correttore potesse fare un miracolo.

La mia amica mi tirò talmente forte i capelli da crearmi un lieve pizzicore all'attaccatura sulla fronte poi, quando mi accorsi che mi aveva fatto uno chignon, storsi il naso: «ti prego no! sembro mia madre!», lei sbuffò e ricominciò da capo, «non capisci niente Giusy», mi rispose seccata.

Oggi era il mio giorno.

Dovevo essere io, dovevo uscire dall'ombra incombente di Valeria Timi e scrivere il futuro di Giusy Alicante.

Alla fine, dopo diversi tentativi complicati di pettinature improbabili, Lia optò per una semplicissima coda alta, imbellita da un laccio verde acqua che risaltava tra i miei capelli scuri; finì il suo capolavoro con una quantità spropositata di correttore sotto gli occhi e del leggero ombretto azzurro con sfumature di argento.

Ogni volta che finiva un'opera, Lia era sempre orgogliosa e soddisfatta, ora mi stava fissando attraverso lo specchio: «è ora di andare!», affermò stringendomi le spalle.

Durante il viaggio verso il palazzetto non volò una mosca, oggi si sarebbero disputate le finali a trave e al corpo libero, questo voleva dire solo una cosa: io contro Sveva.

Sarebbe stata una lotta su due fronti differenti, in palio c'erano due medaglie diverse ma, in comune, c'era il successo.

C'era la prima medaglia individuale per una ginnasta italiana.

C'era la storia della ginnastica.

Nessuna era mai salita su quel podio, solo la squadra era riuscita a conquistare un agognato argento nel lontano 1928.

Prima di entrare nello spogliatoio, Samuele mi abbracciò, mi accarezzò la schiena facendo scivolare la sua mano sulla felpa scura della nazionale. «È il momento di combattere per te stessa, per la ginnasta straordinaria che hai sempre desiderato essere e per la tua stella che adesso può finalmente brillare come merita», mi bisbigliò all'orecchio, «devi prenderti la giusta ricompensa per quello che fai... per quello che sei...».

A un passo dal sogno - Let's Make It -Where stories live. Discover now