18 ~Gentleman~ ✔

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Non appena varcai la soglia della sala da allenamento Enrico mi fece segno di raggiungerlo, Lia era già vicino a lui. «Ragazze, seguitemi in ufficio, dobbiamo parlare».

Si incamminò verso la stanza che condivideva con mia madre, notai che aveva una cartellina azzurra stretta tra le mani. I suoi passi lunghi e distanziati e la sua andatura a passo falcato mostravano fermento e inquietudine, come se desiderasse essere in qualunque altro posto piuttosto che lì, vicino a noi, pronto per farci una rivelazione.

Le parole "dobbiamo" e "parlare" messe una di fianco all'altra mi avevano sempre creato agitazione. Lia mi dedicò uno sguardo dubbioso e, alzando impercettibilmente le spalle, mi fece capire che ne sapeva quanto me.

Arrivammo nell'ufficio stretti in un silenzio colmo di attesa, mia madre era già alla sua scrivania intenta a sfogliare dei documenti, alzò lo sguardo su di noi, ci fece un minuscolo gesto di saluto con la mano per poi immergersi, nuovamente, nella sua lettura. Enrico poggiò la cartellina al tavolo adiacente a quello di Valeria, liberò due sedie con le rotelle e invitò, me e Lia, ad accomodarci. Prima di iniziare a parlarci prese dei fogli da un cassetto, sembravano degli appunti scritti a penna in maniera frettolosa, la calligrafia, infatti, era sghemba e disordinata.

Osservava quelle pagine senza staccare gli occhi dai fogli di carta, una piccola goccia di sudore gli scivolò dalla fronte per poi essere asciugata dalle sue dita affusolate.

«Non so proprio da dove iniziare...», cominciò a dire alzando finalmente la testa.

«Perché non provi dall'inizio?», si intromise mia madre mentre liberava la scrivania dai documenti e volgeva la sua sedia nella nostra direzione.

Più osservavo Enrico e più mi sembrava un cucciolo indifeso, cercava di prendere tempo, tamburellava con le dita sul rivestimento in linoleum della scrivania ed evitava di guardarci dritto negli occhi.

Io e Lia eravamo disorientate, non eravamo mai state convocate in ufficio senza un'idea concreta del motivo del richiamo.

«D'accordo Enrico, parlo io allora», sbottò mia madre incenerendo con uno sguardo il suo collaboratore, «il fatto è questo: la federazione ci ha mandato un sollecito per la lista delle convocazioni per le Olimpiadi di Rio. Mancano solo tre settimane all'effettiva partenza per il Brasile, il problema è che, visti i recenti avvenimenti, Enrico è indeciso tra chi di voi due debba essere la titolare e chi la riserva».

Sussultai, le mie paure stavano prendendo forma. Lia mi mise una mano sulla coscia di nascosto, un modo per sostenermi tacitamente, nessuna delle due avrebbe voluto trovarsi in una situazione del genere.

Apprezzavo il nervosismo di Enrico mentre mi disgustava la freddezza di mia madre, aveva definito la morte di papà con l'espressione "recenti avvenimenti"; sembrava che niente e nessuno potesse scalfire il suo cuore duro come la pietra.

«Cosa dobbiamo fare?», provò a domandare Lia.

Sul volto di Valeria si dipinse un sorriso sarcastico: «allenarvi, ripetere i vostri esercizi all'infinito, alzare i coefficienti di difficoltà».

Il suo atteggiamento saccente e canzonatorio creava in me una rabbia che, se fosse venuta fuori, avrebbe distrutto tutto ciò che c'era intorno senza risparmiare nessuno.

«Io mi sto rimettendo in forma visti i recenti avvenimenti», sottolineai con durezza per colpire il distacco di mia madre, «mi serve ancora qualche giorno per poter tornare come prima».

«Hai dieci giorni, poi la lista deve essere inviata», esclamò lei aspra per poi continuare rivolgendosi sia a me che a Lia, «e provate a fare di più, se volete vincere. Non vado a rappresentare davanti al mondo delle perdenti».

A un passo dal sogno - Let's Make It -Where stories live. Discover now