50 ~Sono esattamente come te~

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Una volta scese dall'aereo, mia madre aveva preso la mia valigia con risolutezza, quasi mi volesse dire che non aveva intenzione di aiutarmi a camminare questa volta. Sembrava esserci rimasta davvero male per la mia battuta insolente fatta durante il volo. Per questo mi aggrappai con fermezza alle stampelle con Sveva che, in maniera premurosa, mi camminava accanto nel caso dovesse servirmi aiuto per scendere o salire le scale.

Visto che mia madre era lontana ne approfittai per affrontare un discorso spinoso: «Lia sa del video?», chiesi a Sveva.

Lei rimase per un secondo interdetta, come se stesse ragionando se fosse opportuno dirmi la verità: «tua madre mi ha detto di non dirtelo ma ormai mi conosci, se penso che una cosa sia giusta, la faccio. Valeria ha parlato con i genitori di Lia del video quindi immagino che lei a quest'ora sappia tutto».

«E gli altri lo sanno?».

«Io l'ho solamente accennato a Samuele», mi rispose alzando impercettibilmente le spalle.

«A proposito», le dissi fermandomi un attimo per riprendere fiato, visto che mi dovevo ancora abituare a camminare per tanto tempo con le stampelle, «non dirgli l'ora precisa in cui arriviamo a casa. Per favore».

Un sorriso fuggevole le si dipinse sul volto prima di acconsentire.

Una di fianco all'altra entrammo nel caos infernale dell'aeroporto di Fiumicino, con il vociare indistinto della folla, le luci al neon dei negozi e gli annunci lampeggianti che comparivano a ripetizione sugli schermi informativi. Non appena uscimmo sulla strada, la prima cosa che notai di diverso fu l'aria: era densa e mi sembrava di fare più fatica a respirare e poi, il sole, sembrava meno luminoso, come se fosse ricoperto da una patina opaca che non gli permetteva di brillare come avrebbe potuto. Non facemmo in tempo a guardarci intorno che un uomo sulla sessantina ci chiese se avessimo bisogno di un taxi, mia madre annuì e si avvicinò con velocità verso una Toyota bianca.

Dopo averci aiutato a caricare le valigie nel portabagagli, il tassista, un uomo dai lunghi capelli grigi arruffati e tenuti indietro con un cerchietto, ci fece accomodare in macchina e si mise alla guida per poi iniziare un lungo monologo. Parlò del traffico di Roma, della manifestazione sportiva che si era svolta qualche giorno fa vicino al Colosseo, della temperatura che quest'anno era stata molto alta e della siccità. Nessuno lo ascoltava e, solo mia madre, annuiva in modo educato leggermente infastidita dal modo esagerato di gesticolare dell'uomo che, poco prima di accostarsi di fronte casa di Sveva, aveva iniziato a raccontarci di un fantomatico terreno che lo zio gli aveva lasciato in eredità un mese fa.

Sveva abitava in un palazzo antico situato non lontano dalla basilica di San Pietro, era una struttura imponente con un enorme portone in legno dall'aria vetusta adornato con delle maniglie in oro.

«Tu vivi qui?», domandai sporgendomi dal finestrino del taxi per guardare meglio.

«Casa dolce casa», sospirò Sveva rimettendosi gli occhiali da sole che aveva incastrato nello scollo della canottiera.

Scese con agilità dalla macchina nonostante i suoi sandali con zeppa, il tassista le consegnò la valigia e lei, poco prima di voltarsi per raggiungere il portone di casa, mi guardò dal finestrino abbassato e disse: «se per caso un giorno avessi voglia di assaggiare qualche pasticcino fatto in casa la mia porta è aperta».

La sue parole mi sorpresero, Sveva stava palesando il suo più grande problema: la solitudine. Spesso le persone sincere e schiette come lei tendono a farsi terra bruciata intorno senza dare a vedere quanto in realtà soffrano.

«Volentieri! Se poi c'è la cheesecake sono già lì!», esclamai con entusiasmo e con una felicità leggermente artefatta, considerata la mia condizione, ma cercavo di ringraziarla con i fatti e non solo con le parole.

A un passo dal sogno - Let's Make It -Where stories live. Discover now