45 ~Dall'altra parte del sogno~

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C'era un ruscello davanti a me, l'acqua scorreva lenta fino a una piccola cascata che terminava in uno stagno tranquillo. Numerose ninfee e altrettanti fiori di loto bianchi venivano spinti da una leggera brezza che li accarezzava con delicatezza, in lontananza sentivo il gracidare delle rane e il frinire delle cicale, musica adatta per questo spettacolo agreste. Con fare indeciso avanzai su di un sentiero acciottolato, ai bordi di esso vi erano siepi ben curate e cespugli rigogliosi, ogni elemento era armonioso nella sua essenza e nella sua ubicazione. Non vi era un filo d'erba che fosse fuori posto né che fosse ingiallito, sembrava che fosse curato da migliaia di giardinieri ogni giorno.

Più mi guardavo attorno e più mi meravigliavo davanti a tanto splendore, era la prima volta che mi capitava di trovarmi nel bel mezzo di un giardino Zen e, finalmente, capivo cosa intendesse mio padre quando ne parlava facendo riferimento alla sua tranquillità e la sua pace.

Questo era il giusto posto per un riposo eterno.

Alzando lo sguardo notai che in lontananza si ergeva un tempio giapponese dai vivaci colori accesi, tetto rosso e rifiniture dorate, per poterci arrivare bisognava attraversare un lunghissimo ponte di legno dalla ringhiera amaranto.

Quella strana struttura strideva con il paesaggio campestre, per questo, mossa dalla curiosità, mi decisi a raggiungerla. Il ponte era largo circa tre metri, serviva da tramite per poter arrivare alla sponda opposta dello stagno. Su ognuno dei lati, vi erano posizionate delle panchine rivolte all'esterno per poter ammirare il panorama. Ben presto mi accorsi che, su una di esse, era seduto un uomo.

Era di spalle, capelli scuri e lunghi che si spostavano al tocco leggero del vento, muovendosi su di una giacca marrone a quadri di tweed. Il suo sguardo era rivolto verso l'orizzonte, dove lo stagno finiva e la vegetazione si faceva più fitta, non riuscivo a scorgere cosa ci fosse al di là, sembrava che i confini sfumassero in una nube bianca .

Senza rendermene conto i miei piedi marciarono nella direzione di quell'uomo, quando fui a poco più di un metro da lui, udii la sua voce familiare: «principessa, finalmente! Era da un po' che ti stavo aspettando».

«Papà», urlai precipitandomi da lui per abbracciarlo e sedendomi sulle sue gambe, esattamente come facevo da piccola.

Respirai il suo dopobarba forte mentre lui mi accarezzava la schiena, la testa appoggiata sulla sua spalla, una piccola lacrima scivolò dal mio viso e gli bagnò il collo.

«Perché piangi?».

«Mi sei mancato», dissi stringendolo forte a me.

«Ma io non sono mai andato via».

«Sì, invece», replicai, «mi hai lasciato da sola».

Cambiai posizione per poterlo guardare negli occhi, erano ancora i suoi, quelli gentili e limpidi, quelli che riuscivano a nascondere bene il mostro che stava crescendo in lui.

«Io sono sempre stato dentro il tuo cuore».

«Non mi basta», sospirai e mi asciugai gli occhi che mi pizzicavano per le lacrime versate.

Lo vidi rattristarsi: «non sempre ci è concesso ciò che vogliamo», mi spiegò prendendomi in braccio e adangiandomi accanto a sé sulla panchina.

Accavallò le gambe con le mani incrociate sul ginocchio, lo sguardo perso all'orizzonte, io lo emulai.

Restammo così per un po', a goderci il lento scorrere delle ninfee sul pelo dell'acqua, il fruscio delle foglie degli alberi quando il vento soffiava e il silenzio rumoroso della natura.

In quel momento la pace che regnava e la vicinanza di papà erano il mio anestetico al dolore.

«Ti racconto una favola, ti va?», mi domandò papà interrompendo la nostra contemplazione del giardino Zen.

A un passo dal sogno - Let's Make It -Where stories live. Discover now