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Mia madre se ne è andata da diverse decine di minuti; so che sarebbe rimasta con me ulteriormente, gliel'ho visto in quei grandi occhi verdi che mi ha trasmesso, ma l'ultimo allenamento di basket di mio fratello prima della partita di sabato – la prima della stagione – l'ha costretta a salire in macchina e a guidare fino a casa, a quasi di un'ora da questo posto.

Anche Teresa, la psicologa che mi è stata assegnata, dopo avermi mostrato l'intera struttura e rassicurata sul fatto che presto tornerà a farmi visita – come se mi interessasse – mi ha lasciata da sola, con una valigia che non sapevo di avere portato da disfare e troppa rabbia dentro il corpo.

Seduta sul letto ancora intatto di quella che, da un paio d'ore, è diventata la mia camera in questa clinica, con le gambe premute contro il petto e la guancia sinistra appoggiata alle ginocchia, il mio sguardo spento diretto verso l'enorme finestra da cui si vedono gli Appennini, mi trovo a pensare all'incontro di questa mattina con quella ragazza.

Mentre aspettavo, rannicchiata su un muretto poco distante dall'entrata del padiglione 5 del Policlinico, di scorgere finalmente la figura snella di mia madre che mi avrebbe accompagnata alla clinica dopo più di due settimane di degenza in una piccola stanza asettica del quarto piano, lei si è avvicinata in silenzio e ha preso posto a qualche metro da me. Io non l'ho nemmeno guardata; i miei occhi sono rimasti fissi sull'angolo della strada stretta da cui sapevo che sarebbe apparsa la mamma, senza nutrire il minimo interesse verso la sconosciuta che si era seduta a qualche decina di centimetri da me.

«Sembra che tu abbia freddo» ha detto all'improvviso. Mi sono voltata verso di lei: aveva tra le labbra una sigaretta ancora a metà dalla cui estremità usciva un sottile filo di fumo, in mano un accendino di un giallo troppo acceso per il grigio del cielo che ci copriva la testa, i capelli neri che le ricadevano su parte del viso e un sottile anellino di metallo al naso. «Sbaglio?»

Ho aperto la bocca per rispondere negativamente, ma una lieve folata di vento mi ha fatta rabbrividire, congelando quell'unica sillaba nella mia gola. Non volevo ammetterlo, ma aveva ragione. Le due paia di calze non bastavano ai miei piedi per scaldarsi, le dita delle mie mani erano intorpidite, e la giacca, già invernale nonostante la stagione, di fatto ancora estiva, non impediva al leggero vento che soffiava di tanto in tanto di infilarsi sotto la felpa ed il maglione e di pungere la mia schiena.

«Dio, stai congelando!» Dopo l'ultimo sbuffo di fumo, la sigaretta è atterrata sul suolo di cemento grigio; la ragazza l'ha spenta con la punta della sua scarpa, poi ha infilato le mani e il naso nel suo zaino blu elettrico e, dopo aver rovistato per qualche secondo al suo interno, ne ha estratto una sciarpa enorme e me l'ha porta. «Tieni» ha detto. «A me non serve.»

L'ho guardata in modo incerto, senza afferrare il pezzo di stoffa, nonostante il suo aspetto piacevolmente caldo. «Apprezzo il pensiero, ma non ne ho bisogno nemmeno io» ho replicato, provando ad accennare un sorriso; poi ho rivolto nuovamente la mia attenzione verso la strada, sperando di scorgere finalmente mia madre.

La ragazza ha emesso un sospiro spazientito, senza tuttavia riporre la sciarpa nello zaino; infine ha fatto scivolare il suo corpo lungo il muretto, annullando la distanza che fino a quel momento l'aveva separata da me, e ha appoggiato il tessuto sulle mie spalle. «Ora è tua; non toglierla.»

Avrei voluto non ascoltare le sue parole; avrei voluto togliermi quell'orribile tovaglia di dosso, magari lanciargliela aggressivamente, risponderle in modo arrogante, ribadendo che non ne avevo bisogno; ma il suo materiale era talmente pesante che sembrava realmente fare da scudo al lieve vento di inizio settembre che, per il mio corpo, era già al pari di quello invernale, e mi ha scaldato le ossa così in fretta che non sono riuscita a trovare il coraggio di farla scivolare via e restituirgliela. «Grazie» sono riuscita a dire dopo diverse decine di secondi. La parola è suonata strana alle mie orecchie; non sono riuscita a ricordare l'ultima volta che l'avevo sentita uscire dalla mia bocca.

SPRING - Storia di una ragazza che deve reimparare a vivereWhere stories live. Discover now