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Mentre cerco l'ultimo tassello per completare la cornice di un puzzle raffigurante un cagnolino addormentato, Beatrice arriva alle mie spalle e pizzica il mio fianco sinistro, facendomi sussultare.

«Ciao!» esclama; il suo tono di voce troppo alto attira l'attenzione dei pazienti all'interno dell'ampia stanza, facendoli voltare verso di noi. Ci rivolgono uno sguardo torvo, biasimandoci per averli distratti da ciò che stavano facendo; io ricambio con un sorriso colpevole.

«Che diavolo fai?» mormoro, rivolta a Beatrice.

Alza le spalle. «Niente» risponde, sedendosi al mio fianco. «Come promesso, sono venuta a visitarti. Andiamo?» domanda, iniziando a riporre senza cura i tasselli nella scatola di cartone.

«Hey!» protesto; tento di proteggere la mia cornice quasi finita bloccandole i polsi. «Dove?»

«Ma come? Di sopra!»

Osservo cupamente il mio lavoro. «Cos'hai in mente, Beatrice?»

Lei si libera dalla mia stretta e si alza; mi porge una mano. «Lo vedrai. Andiamo!» insiste.

Cedo con riluttanza; distruggo la parte esterna del mio puzzle e lascio cadere i piccoli pezzi sopra agli altri. «Andiamo» ripeto, seguendola.

Beatrice è pura energia; mi intima di darmi una mossa più volte, mentre salgo le scale; la sua voce risuona nel corridoio che porta alla mia camera, ed io vorrei davvero accontentarla, ma aumentare la velocità mi porterebbe ad ansimare per decine di minuti. Quando arrivo davanti all'ingresso, lei è già all'interno della stanza e mi sta aspettando seduta sulla poltrona.

Scatta in piedi non appena mi vede sulla soglia. «Mettiti lì!» ordina, indicando il letto disfatto.

Obbedisco perplessa; lei si accomoda nuovamente sulla bergère, afferra il suo zaino e lo posa sulle ginocchia. Lo apre, estraendo un maglione, che appoggia sulla coperta, e molte foto che riconosco: sono quelle che le ho chiesto di stampare l'ultima volta che è stata qui.

Si alza di nuovo, così in fretta che mi chiedo come sia possibile che non le giri la testa. «Dunque» esordisce, muovendo qualche passo verso la scrivania. «Pensavo di appendere questa qui» spiega, accostando alla parete una foto che ritrae tutta la mia famiglia. Ricordo il momento in cui è stata scattata: la festa per il quarantatreesimo compleanno della mamma. A quei tempi avevo già iniziato a ridurre il mio apporto calorico giornaliero, ma solo qualche mese più tardi esso sarebbe diventato una vera e propria ossessione; non c'erano ancora stati reali cambiamenti nella mia forma fisica, dunque i miei genitori non riempivano le loro vite di inutili preoccupazioni. Osservo la foto e, pur non riuscendo a distinguere ogni dettaglio, ricordo i sorrisi sinceri che illuminavano il viso di quelle quattro persone e, un po', li rimpiango. «Invece la posizione ideale per quest'altra mi sembra questa» continua Beatrice, che ha attraversato la stanza ed ora si trova accanto all'ampia finestra di fronte al mio letto. Cammina verso la porta e vi si ferma di fianco. «Questa, invece, la metterei qui. E quest'altra...» 

«Beatrice» la chiamo; lei si volta verso di me con aria interrogativa. «Calmati.»

«Scusami» dice. «È che la mia vita è sempre così frenetica... faccio fatica a rallentare.»

Batto la mano sul materasso, proprio accanto a me. «Vieni qui» la esorto.

Si avvicina al letto, per poi lasciarsi cadere su esso. «Scusami» ripete.

«Scherzi?» ribatto. «Avevo solo paura che, se avessi continuato in quel modo, saresti esplosa.»

Lei accenna un sorriso che, tuttavia, scompare dopo una manciata di istanti. «A volte temo che possa succedere davvero» ammette. «Tra il lavoro, lo studio, l'ospedale, la casa...»

«Ed ora hai anche me» aggiungo.

Lei annuisce. «Tu, però, sei un momento di svago; non un peso» dice. Poi realizza ciò che ha detto e si irrigidisce: «Non voglio dire che mia madre sia un peso» precisa. «Però è difficile dovermi mostrare sempre felice davanti a lei, dover fingere di essere forte perché non si demoralizzi, doverle dire che andrà tutto bene quando, purtroppo, sappiamo che non è così.»

«Non si può curare?»

Scuote la testa; una lacrima esce dal suo occhio destro, si fa strada lungo la sua guancia ed, infine, termina il suo corso sul maglione grigio di Beatrice. «Qualche giorno fa i medici ci hanno detto di smettere di sperare.»

«E lo sa?»

«No» risponde. «Dobbiamo comunque fingere che non sia tutto perduto, con lei.»

«Quanto le rimane?»

«Non saprei. Non molto, comunque; qualche mese, al massimo.»

La stringo in silenzio, perché non so cosa dire: sono certa che nessuna parola potrebbe cancellare od almeno attenuare il suo dolore, perciò decido di farle sapere che le sono vicina con un gesto. Mentre piange con il viso affondato nell'incavo tra il mio collo e la mia spalla vengo investita dai sensi di colpa: penso a mia madre e a come l'ho trattata domenica, mi rendo conto di essere stata maleducata ed egoista. Sono certa che Beatrice darebbe qualsiasi cosa per poter vivere con la donna che l'ha messa al mondo qualche anno in più; io, invece, spreco tutto il tempo che abbiamo rispondendole sgarbatamente.

La mia amica si allontana lentamente, asciugandosi le lacrime con il palmo delle mani. «Scusami» dice. «Non volevo che il nostro incontro si trasformasse in una seduta psicologica.»

Abbozzo un sorriso. «Tranquilla» la rassicuro, «è normale che, ogni tanto, ceda anche tu.»

Annuisce; poi, come se non fosse successo nulla, si alza e fissa le fotografie che mi ha mostrato diversi minuti fa alle pareti. Io, seduta a gambe incrociate sul letto, la osservo attraversare la mia metà di stanza da un estremo all'altro e commento il suo lavoro. Quando finisce, il muro è quasi completamente ricoperto di immagini e nuovi aforismi che ha scelto lei e che io sono stata obbligata ad accettare. Beatrice si ferma al centro della stanza e, lentamente, compie un mezzo giro su se stessa per ammirare il suo lavoro.

Infine si volta verso di me: «Sono stata proprio brava» afferma soddisfatta.

«Sì» concordo, «se non fosse che sei un tiranno!» Afferro un cuscino e glielo lancio, colpendola sul capo.

«Ho dovuto!» si giustifica. «È molto più bella di qualche giorno fa, no?»

Sono costretta a darle ragione: anche la mia parte di stanza è più accogliente, più familiare, più calda; le foto della mia famiglia mi ricordano momenti felici ed, invece, quelle che ritraggono la sua mi permettono di immaginare situazioni sempre nuove.

Beatrice si siede nuovamente sulla poltrona, sorridendo. Affonda una mano all'interno del suo zaino aperto, ne estrae un paio di calze lunghe ed apparentemente morbidissime, che mi porge. «Tieni» dice, semplicemente. «Credo che tu ne abbia più bisogno di me. Come la sciarpa!» Non faccio in tempo a ringraziarla perché, prima che io possa dire qualsiasi cosa, lei ha già tirato fuori tre libri. «L'altro giorno ho visto Harry Potter appoggiato sul pavimento» spiega, indicandolo.

«Mi hanno ricoverata qui a tradimento» dico. «Era l'unico libro all'interno della mia borsa.»

«Infatti sono giunta in tuo soccorso» scherza, appoggiando i tre testi di fianco a me.

Scuoto la testa divertita. «Non avresti dovuto.»

«I miei genitori mi hanno insegnato che è buona educazione portare un piccolo regalo ad una persona ricoverata in ospedale» rivela. «Ho sempre portato dei cioccolatini o delle caramelle, ma con te ho dovuto pensare a qualcos'altro... Per ovvi motivi.»

«Hai fatto bene» confermo, «ma questi non sono piccoli regali» dico, indicando le foto appese ai muri, la sciarpa, i calzini, i libri.

«Lo faccio con piacere, Méabh» assicura. «Almeno, quando torno a casa e l'assenza della mamma si fa sentire, posso pensare a cosa regalarti. Te l'ho detto: tutto ciò che riguarda te è svago.» Sorride.

SPRING - Storia di una ragazza che deve reimparare a vivereWhere stories live. Discover now