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Non sono mai stata a favore del sondino.

O, almeno, non sono mai stata a favore del sondino per me.

Ho sempre pensato che io dovessi avere la possibilità di scegliere, per qualsiasi cosa: quando sostituire finalmente il piumone con la coperta estiva, se e a che ora uscire, quale indumenti indossare, in che momento del giorno fare la doccia o immergermi nella vasca, che regalo comprare per mio fratello o mia madre, quale facoltà intraprendere all'Università. Ovviamente, ho sempre voluto decidere quando, cosa e, soprattutto, se mangiare.

Dall'istante in cui sono arrivata in questo posto, non ho più avuto la possibilità di scegliere nulla: la mia giornata è basata su orari e programmi che non sono determinati da me e ai quali non posso oppormi. Devo svegliarmi presto, presentarmi alle sette e mezza da Valeria per farmi pesare; se voglio lavarmi, posso farlo unicamente entro le 8:25, perché poi inizia l'ora della colazione, che devo trascorrere interamente seduta su una sedia all'interno della sala da pranzo, davanti ad alimenti di cui non ricordo nemmeno più il sapore. Qui, il cibo è l'unica cosa che posso, o meglio, potevo decidere: ciò che avevo sul piatto era stabilito da loro, io decidevo di non mangiarlo.

Adesso, invece, non ho nemmeno più quello.

Ho capito subito che non avrei avuto alcuna possibilità di vittoria - d'altronde, mi avevano concesso, il giorno precedente, di camminare sulle mie gambe -, quindi ho lasciato che infilassero quel sottile tubo di plastica dentro la mia narice sinistra e, quando mi hanno ordinato di farlo, ho deglutito. Ho sentito un fastidioso bruciore alla gola che, però, è stato sovrastato dal dolore alla testa: la Voce ha manifestato i suoi pensieri verso di me gridando, urlando quanto fossi debole, grassa, inutile, stupida. Non ho nemmeno provato a zittirla: ho sopportato le sue accuse, perché, alla fine, concordavo con Lei.

In camera, seduta sulla poltrona celeste di fronte all'armadio, il mio sguardo oscilla tra la sacca di plastica riempita di un liquido di un vomitevole color sabbia e la mia immagine riflessa sulle ante lucide: il sondino è in funzione da appena tre ore e io già mi sento orribilmente gonfia, vergognosamente grassa, tremendamente in sovrappeso. Mi sembra che queste misere tre ore di nutrizione forzata abbiano cancellato i miei tre lunghissimi anni di metodico controllo delle calorie ingerite e consumate, di digiuno, di impegno. L'infermiera dai capelli aranciati che mi sorveglia mi ammonisce di tanto in tanto, mi propone di tornare nella sala comune, mi intima di smettere con questa tortura mentale alla quale mi sto condannando; sa che riesco a notare le mie gambe lievitare ed il mio viso riempirsi a vista d'occhio e tenta di spiegarmi che ciò che vedo è dato da un dismorfismo corporeo e da una malattia - ancora - che so di non avere. La ignoro, ovviamente, pregando che l'assoluto silenzio che riempie la stanza le faccia venire mal di testa e che, per questo, decida di lasciarmi sola. Perché è quello che merito di essere.

Invece, qualcuno bussa sullo stipite della porta già aperta per annunciare il suo arrivo. Mi volto; con la coda dell'occhio vedo l'infermiera fare lo stesso. Emma è in piedi sulla soglia, vestita con lo stesso tailleur nero che indossava stamattina. L'espressione sul suo viso, però, è molto diversa da quella che aveva appena qualche ora fa: la serietà e la preoccupazione hanno lasciato il posto all'allegria, come dimostra l'ampio sorriso.

«Hai visite» annuncia. «Vieni.»

«Non può salire il visitatore?» domando, svogliata.

«No; devi scendere e dirci se hai voglia di passare un po' di tempo con quella persona o meno.»

«Non puoi dirmi chi è questa persona?»

«No. Devi scendere» ripete.

«Non voglio farlo» replico. «Ad ogni modo, non aspettavo visite e non sono dell'umore per riceverne, perciò puoi mandare via chiunque si sia dato la pena di venire qui.»

SPRING - Storia di una ragazza che deve reimparare a vivereDove le storie prendono vita. Scoprilo ora