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Beatrice viene a trovarmi il giorno seguente, nel primo pomeriggio, mentre sono seduta fuori, in giardino, da sola. Addosso ho una maglietta a maniche corte, una felpa e un cappotto; sto morendo di freddo - non ho idea di come io riesca a convincere l'infermiera che è fuori con me di stare bene - ma, dopo la sentenza della bilancia di stamattina, è questo quello che merito: di congelare.

Sono aumentata ancora. E, come ieri, anche oggi sento addosso ognuno di quei duecento grammi.

Vedo la macchina di Beatrice entrare nel parcheggio della clinica ed infilarsi in un posto vuoto; lei apre la portiera, esce. Preme un tasto del telecomando e i fanali dell'auto lampeggiano ad indicarne la chiusura; Beatrice, però, si è già voltata verso la porta d'ingresso della costruzione. La guardo entrare anche se potrei alzare un braccio e farmi notare, la guardo entrare perché oggi non ho alcuna voglia di vederla e parlarle, la guardo entrare e spero che non esca più.

Ed, invece, meno di un minuto più tardi, eccola lì: cammina verso di me, con una mano che oscilla in aria per salutarmi ed i capelli mossi dai suoi passi. Mi raggiunge in un tempo che a me servirebbe per muovermi di appena due metri, si lascia cadere di fianco a me, sulla panchina su cui sono seduta da più di due ore, mi guarda. «Ciao!» dice, con un tono di voce un po' troppo alto.

L'infermiera mi saluta con un cenno - non tocca più a lei tenermi d'occhio, ora - e si dirige verso l'entrata, lasciandoci sole.

Prima di ricambiare il saluto, inspiro a fondo, per tentare di calmare i miei nervi. Invano, purtroppo; in questi giorni ogni cosa mi irrita: gli umani, le cose, gli animali. Stamattina, dopo essermi pesata, ho rischiato di lanciare la bilancia contro la finestra; ieri ho tentato di litigare con chiunque mi si avvicinasse e, in qualche caso, ci sono persino riuscita. Ho paura che attaccherò anche Beatrice ed è per questo che desidero più di ogni altra cosa che se ne vada ora, che si ricordi di avere un impegno e che salga sulla sua Ford. Perché, per quanto mi sforzi di pensare il contrario, e per quanto io abbia un modo molto particolare di dimostrarlo, le voglio bene. Ed oggi, invece, credo di poterle fare solo del male.

«Ciao» dico; il mio tono piatto contrasta con il suo, estremamente allegro.

L'espressione sul suo viso cambia improvvisamente. «Tutto a posto?» chiede interrogativa.

«Tu che ne dici?»

Fa una pausa. «Vuoi parlarne?»

«No.»

«Andiamo dentro?»

«No.»

«Fa freddo» dice. «Non hai nemmeno la sciarpa addosso.»

Alzo le spalle. «Sto bene.»

«Ci sono cinque gradi.» Mi guarda, incrocia le braccia davanti al petto. «Quando ci siamo conosciute ce n'erano sedici e tu stavi tremando come una foglia.»

«Evidentemente avevo meno grasso a scaldarmi» osservo a denti stretti.

Beatrice sospira. «Ah» annuisce. «Ho capito qual è il problema: ora puoi pesarti.»

«Non è un problema» ribatto.

«A me sembra di sì. Guardati: ti stai punendo per quanto, due etti in più?»

«Cinque» sibilo; e sento già le lacrime premere negli occhi.

Lei annuisce ancora, fingendo di capirmi. «Ma certo. Cinquecento grammi!» esclama. «Inaccettabili, se si è gravemente sottopeso, no?»

«Sono sempre inaccettabili» preciso.

Beatrice si alza, passeggia in silenzio per un paio di minuti. Poi si siede nuovamente di fianco a me. Sento i suoi occhi addosso, ma non ho intenzione di guardarla. Non ho nemmeno intenzione di ascoltare quello che ha da dire. A lei, però, non importa. «Sei sicura di voler vivere in questo modo fino alla tua morte?» domanda.

La guardo interrogativa. «Così come?»

«Così» dice, percorrendo la mia figura con lo sguardo. «Dipendendo da numeri - che stiano ad indicare un peso o delle calorie o dei grassi non ha importanza. Senza alcuno scopo, se non quello di essere...»

«Magra?» finisco la frase.

Scuote la testa. «No, non è quella la parola. Io direi più... fragile. Scheletrica» mi corregge. «Vuoi davvero che il tuo peso influenzi ogni tua singola giornata, da qui a quando il tuo cuore smetterà di battere?» chiede. «Sei certa di non voler avere più nessun pensiero, al di fuori del cibo? Sei sicura di voler passare la tua intera vita, breve o lunga che sia, a progettare ogni pasto? E, mentre mangi, a calcolare ogni caloria ingerita?»

«Non è che lo voglia» dico. «È che, semplicemente, va così.»

«No!» sbotta. «Non deve andare per forza in questo modo. Puoi decidere di reagire!»

Quella che esce dalla mia bocca è una risata amara. «Per favore. Sei troppo ottimista.»

«Méabh, dall'anoressia si può guarire; lo sai, vero?»

«L'anoressia non è una malattia» ribatto.

«Ah, no?» dice ironicamente. «E cos'è? Una religione?»

Rifletto per qualche secondo. «Sì, potremmo dire così» rispondo infine.

Lei sbarra gli occhi, visibilmente incredula. «Stai scherzando, spero.»

«So che il mondo intero la classifica come malattia» dico. «Ma, secondo me, è sbagliato. È una semplice ideologia. Tu pensi che serva mangiare per vivere, io no. Tu pensi che le ossa sporgenti non siano belle, io sì. Tu hai una certa concezione di peso ideale, ed io ne ho un'altra.»

«E qual è? Sentiamo.»

«Non è facile da spiegare» replico. «In realtà, ho un'idea diversa solo per quanto riguarda me. Non penso che tu debba dimagrire, ad esempio» spiego.

«Ma tu sì.»

«Esatto» annuisco. «Non so quale sia il mio obiettivo» dico. «Non so nemmeno se ne abbia uno. Voglio semplicemente perdere peso perché, per quanto ne abbia già perso, sono ancora grassa.»

Scuote la testa. «No, Méabh» obietta. «Ho visto il tuo corpo nudo solamente una volta e, te lo giuro, avrei voluto piangere. Non so nemmeno come io abbia fatto a trattenermi» racconta. «Il tuo busto è meno spesso del primo libro di Harry Potter... e tu per prima sai quanto La Pietra Filosofale sia sottile. Le tue braccia sembrano quelle di una bambina, e le tue gambe formano un mio polpaccio» dice; la sua voce trema leggermente.

«Lo dici solamente per convincermi a mangiare.»

«Davvero non lo vedi?» domanda.

«Quello che hai descritto?» Lei annuisce. «No» rispondo.

«Ma la bilancia mi dà ragione» dice.

Sospiro. Non posso darle torto. «Diciamo di sì» ammetto con un mormorio.

«E allora perché non ci credi? Ti fidi più dei tuoi occhi che di qualcosa di oggettivo, universale?»

«Sì» replico. «La tecnologia potrebbe sbagliare.»

«Méabh, una bilancia potrebbe sbagliare. Potrebbe essere rotta; su questo hai ragione» dice. «Ma tutte le bilance? Tutte?»

Alzo le spalle. «Non lo so, Bea. Non riesco a fidarmi.»

«Della tecnologia?»

«Di nessuno, in realtà.»

SPRING - Storia di una ragazza che deve reimparare a vivereWhere stories live. Discover now