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Sono sdraiata sul letto da un tempo che mi sembra infinito; non so se siano passati secondi, minuti od ore da quando l'ultima luce bianca si è spenta, in una stanza dalla parte opposta del corridoio che non so a chi appartenga, e non ho la forza di alzare il braccio e lanciare un'occhiata all'orologio. Sono certa che, però, di solito, a quest'ora sto contraendo gli addominali o i muscoli delle mie gambe.

Stasera, però, nemmeno la Voce è abbastanza forte da sovrastare i miei pensieri.

Ho cercato per diverso tempo una parola che descrivesse il modo in cui mi sento da quando la sessione con Teresa è terminata, mi sono resa conto solo ora che fosse un termine decisamente semplice: vuota.

Non ho mai avuto la presunzione di pensare di essere la prima a tentare di ingannare i medici; tuttavia, ero convinta di essere la prima ad avere successo. Mi credevo migliore, più intelligente, più furba di tutti gli altri ed, invece, a quanto pare, sono solo una dei tanti.

Non hanno nemmeno provato a farmi mangiare, stasera; mentre osservavo il mio vassoio riempito di piselli, carote e carne rossa, senza avere la minima intenzione di impugnare la forchetta e di obbligare me stessa ad ingurgitare qualcosa, mentre tutti gli altri, invece, assaporavano la loro cena, con la coda dell'occhio ho visto Emma muovere un passo verso la mia direzione e Teresa bloccarla con un braccio.

Oggi è stato il giorno allo stesso tempo peggiore e migliore, da quando sono arrivata; migliore, perché finalmente mi è stato permesso di digiunare; peggiore, perché ho lasciato cadere davanti alla mia psicologa troppi mattoni del mio muro, perché le ho parlato, perché ho visto crollare le mie certezze, perché non ho fatto i miei esercizi, perché non so cosa io sia.

Mi sento un involucro nudo e completamente scavato, come le zucchine che mamma, prima di farcirle di carne, privava della polpa. Non penso, a questo punto, che avrò mai un ripieno.

«Méabh?» Una voce misurata e gentile mi chiama, mentre una mano, appoggiata sulla mia spalla, mi scuote. «Méabh, è ora di alzarsi» continua. Decido di aprire un occhio; Amanda, un'infermiera dai lunghi capelli color mogano, mi guarda con i suoi occhi nocciola. «Buongiorno!»

Mugugno qualcosa di indefinito, senza alzarmi.

«Forza, è ora di fare colazione!»

«Non ho fame, Amanda» protesto. «Ho sonno.»

«Sei rimasta sveglia fino a tardi?»

«Non lo so, ma ho sonno. Voglio rimanere qui.»

Sospira. «Méabh, sai che non posso permettertelo. Alzati, per favore, e vai a fare colazione.»

«Ieri sera è stato un caso, allora» sbuffo, calciando le coperte ai piedi del letto e mettendomi a sedere su esso. Mi stropiccio gli occhi, ancora assonnati.

«Avanti, lo sapevi. Sei venuta qui perché devi mangiare; come puoi pretendere che ti lasciamo morire di fame?»

Mi alzo definitivamente. «Come potrei morire di fame?» domando, sfilandomi il maglione e afferrando la vestaglia, come ogni mattina. «Non vedete il mio corpo?»

«Oggi non ti pesiamo» dice Amanda. «Nel fine settimana vi diamo un po' di respiro. Ad ogni modo, certo che lo vediamo. Ed è esattamente per questo che cerchiamo di spingerti obblighiamo a mangiare.»

La guardo, senza capire, ancora mezza nuda. «Che diavolo significa?»

«Sei anoressica, Méabh. Significa che sei malata, sei troppo magra, e hai bisogno di nutrirti.»

Non riesco a trattenere una risatina isterica. Un corpo come il mio non è un corpo denutrito, magro, consumato; anzi, ha il problema opposto e, secondo l'immagine che si riflette sulle ante dell'armadio, non sembrano esserci miglioramenti. Non assumo mai più di 250 calorie al giorno e tento di eliminarle tutte, ma la carne continua a strabordare dai ogni parte del mio corpo; persino le mie guance ne sono colme, e detesto così tanto la loro pienezza che le mordo finché il sapore metallico del sangue non invade la mia bocca. «Dio, si vede che non hai mai visto un corpo troppo magro» commento, scuotendo la testa, mentre mi infilo un paio di jeans.

«Credimi, il tuo è uno dei più impressionanti che abbia visto in tutti questi anni. Ti aspetto di sotto.»

Mi lascia sola; sento i suoi passi allontanarsi sempre di più lungo il corridoio, fino a svanire completamente. L'orologio segna le nove passate ed io non ho alcuna intenzione di mangiare così tardi, perché rischierei di non smaltire le calorie che assumo; è fuori discussione. Quando entro nella sala da pranzo, già vuota - gli altri pazienti hanno fatto colazione molto prima di me, evidentemente - decido di concedermi solo una tazza di tè caldo aromatizzato alla vaniglia, che mi lascia un sapore dolce in bocca senza contenere alcuna traccia di zucchero. La bevanda bollente rende la temperatura della ceramica perfetta per le mie mani gelide; avvicino il viso ad essa, per lasciare che il vapore lo riscaldi.

Sento diverse voci provenire dalla sala comune; oggi è sabato, il che significa che l'orario delle visite è esteso; mentre, durante la settimana, si possono ricevere solo dalle due alle cinque del pomeriggio, durante il fine settimana a parenti e amici è permesso restare dalle nove del mattino fino alle sette di sera. Sono più che certa che i proprietari delle voci allegre che sento appartengano ad alcuni dei parenti dei ragazzi.

Per quanto mi riguarda, so per certo che, oggi, nessuno arriverà per me.

I miei genitori saranno seduti da qualche parte, nella tribuna attorno al campo da pallacanestro sul quale giocherà la squadra di mio fratello. Nella mente, riesco a dipingerli tutti: mia madre con i suoi capelli raccolti, con addosso un paio di pantaloni eleganti ed aderenti ed una maglietta a mezze maniche; mio padre, con un cappellino che non serve posizionato sulla testa ed un sorriso contento che gli illumina il volto; riesco a vedere entrambi che si alzano in piedi esultando e gridando incoraggiamenti a mio fratello, un ragazzino che una volta mi arrivava alle spalle e che ora supera il metro e ottantacinque, che salta da metà campo e lancia una palla arancione che compie una perfetta traiettoria che termina all'interno della rete del canestro. Sorrido alla scena, perché l'ho vista svolgersi davanti ai miei occhi così tante volte che la conosco a memoria.

E poi non sorrido più, perché oggi, per la prima volta, non sono con loro.

SPRING - Storia di una ragazza che deve reimparare a vivereWhere stories live. Discover now