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Passano quasi due settimane prima che la Ford nera che guida Beatrice faccia il suo ingresso nel parcheggio della struttura. Dodici giorni di degenza assolutamente normali, con le sessioni di scrittura creativa il lunedì e il venerdì mattina, la terapia di gruppo il martedì e il giovedì, l'ora di cucina il mercoledì. Dodici giorni durante i quali ho avuto l'occasione di vedere la mia famiglia due volte – il sabato, come di consueto. Dodici giorni che mi hanno resa più leggera, stando all'espressione delusa e frustrata che vedo ogni mattina sul viso di Valeria; dodici giorni che, invece, hanno reso Vittoria più pesante, dato l'umore terribile che conserva da più di una settimana a questa parte.

È questo, il tempo che ci vuole prima che Beatrice torni.

Dodici giorni.

E, quando lo fa, è diversa: i suoi capelli, fino all'ultima volta incredibilmente lunghi, adesso le arrivano alle spalle; il suo abbigliamento colorato ha lasciato spazio ad abiti completamente neri; il suo zaino è sparito. Ha un'espressione che mi stringe lo stomaco, ma si sforza di sorridere, quando mi vede. I suoi occhi color ghiaccio, però, diventano umidi non appena incontra il mio sguardo, e lei si volta, dandomi le spalle per qualche momento, per asciugarli.

Cammino, con la mia solita lentezza, verso di lei. «Come stai?» le chiedo quando la raggiungo; esattamente come dodici giorni fa.

Lei deve respirare a lungo, prima di riuscire a rispondermi; e, anche quando finalmente lo fa, la sua voce trema: «È ancora più difficile» dice. «Io pensavo di essere già stremata. Davvero, non credevo di potermi sentire peggio. Invece...» Non riesce a continuare.

Mi avvicino ulteriormente e la stringo. «Io... non so davvero cosa dire, per aiutarti.»

«Non c'è niente da dire» ribatte.

Ci vogliono parecchi minuti perché si calmi. Quando succede, si scusa – come se non avesse tutto il diritto di piangere – e si lascia cadere distrattamente sullo stesso divano arancione dell'altra volta. «E tu?»

«E io?» ripeto, senza capire.

«Come stai, cosa mi racconti? Cerca di distrarmi, ti prego» supplica. «Sono dodici giorni che non faccio altro che piangere e urlare. Sono stanca.»

«Non ho molto da raccontare» dico. «Qui dentro le cose vanno sempre nello stesso modo. Però ho qualcosa per te» annuncio, sorridendo.

Lei raddrizza la schiena, osservandomi; nei suoi occhi ancora umidi c'è una piccola traccia di curiosità. «Cosa?»

Chiedo all'infermiera che ci sta tenendo d'occhio di andare in camera mia e le spiego con cura quello che mi deve portare; lei sospira, rassegnata, e lascia la stanza velocemente. Sentiamo i suoi passi risuonare sui gradini. Beatrice si sporge verso di me e insiste: «Cos'è?»

«Lo vedrai tra poco, Bea.»

«Ti prego, dammi un indizio» dice. «Uno piccolo!»

Fingo di rifletterci su per qualche secondo, finché lei mi dà un leggero buffetto sul braccio. «Va bene, va bene» mi arrendo. «È il tuo regalo di compleanno. Ho chiesto alla mamma di andare a prenderlo, dato che io non posso uscire. Inizialmente era un po' scettica.»

«Perché?»

«Temeva che avessi inventato un nome, e che in  realtà fosse per Vittoria» spiego. «Diciamo che non approva la nostra amicizia.»

«Perché non è amicizia» mormora Beatrice, così piano che sono certa che non avrei dovuto sentire il suo commento.

«Cosa?»

Lei si schiarisce la gola. «Nulla» mente.

Non faccio in tempo a chiederle delucidazioni, perché Irene ci raggiunge e mi porge il piccolo sacchetto color avorio che le ho chiesto. La ringrazio, e mi rivolgo nuovamente alla mia amica: «Questo è per te» le dico. Beatrice afferra il pacchetto e lo apre, estraendone una piccola scatola blu. Quando vede il suo contenuto, gli occhi le si riempiono nuovamente di lacrime ed io non riesco a fare a meno di abbracciarla. «Ti piace?» chiedo. «Ho fatto delle ricerche su Internet, e ho scoperto che è simbolo di protezione, potere e amicizia. Ho pensato che fosse perfetto per te, e per quello che volevo dirti.»

SPRING - Storia di una ragazza che deve reimparare a vivereDove le storie prendono vita. Scoprilo ora