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Non li sentiamo arrivare.

O almeno, io non li sento arrivare. Beatrice forse sì e, nonostante sappia benissimo cosa succederà, decide di non avvisarmi, di non chiamarmi, di non dirmi nulla. Rimane seduta sul bordo del mio letto con gli occhi fissi sulla mia schiena, in silenzio.

«Méabh!» La voce che grida il mio nome è troppo familiare perché possa non riconoscerla. Non appena la sento il mio corpo si irrigidisce, ed il mio cuore inizia a battere velocemente.

Sono nuda, in piedi sulla bilancia. Il suo schermo segna il mio peso, 38 chili: gli stessi del momento in cui il mio cuore ha smesso di battere per qualche secondo, prima che il mio allenatore di danza si chinasse sopra di me ed iniziasse la rianimazione. Ho avuto tutto il tempo, prima che Emma entrasse nella mia camera, di osservare quel numero e metabolizzarlo. Ho avuto tutto il tempo di sentirmi un fallimento, di odiarmi, di ascoltare la Voce che, nella mia testa, urlava la sua delusione. Avrei potuto usare quello stesso tempo per nascondere la bilancia all'interno del mio borsone vuoto all'interno dell'armadio e per rivestirmi; invece ho preferito contemplare il numero stampato sul piccolo display, assimilarlo; ho preferito lasciare che il mio intero corpo fosse scosso dai brividi più del tempo necessario.

Ora non ho scuse, non posso negare l'evidenza; sono colpevole.

«Mettiti qualcosa addosso. Subito!» ordina Emma; il suo tono, ora, è serio, fermo. Forse, avrei preferito le urla. Obbedisco: mi infilo i pantaloni della tuta, la maglietta e la felpa.

Solo adesso riesco a guardarla: al suo fianco c'è Teresa, con le braccia lungo i fianchi, gli occhi sbarrati e la bocca leggermente dischiusa in segno di stupore. La direttrice, invece, ha i muscoli del viso tesi; cammina velocemente verso la piccola bilancia portatile, poi si volta verso me e Beatrice, il cui sguardo è fisso sul pavimento. «Sei stata tu, vero?» la accusa.

«No, Emma» provo a difenderla. «Io le ho chiesto di portarmela» confesso. «A dire la verità, non gliel'ho proprio chiesto. Era più un ordine.»

«Non mi interessa» ringhia la direttrice della clinica. «Nessuno l'ha obbligata, mi sembra.»

«Mi dispiace» mormora Beatrice.

«Ti dispiace?» ripete Emma. «Fidati, sono più dispiaciuta io per essermi fidata di te. Pensavo fossi una ragazza a posto, pensavo non avresti mai fatto del male a Méabh, vista l'insistenza con cui hai chiesto di lei nei primi giorni in cui sei venuta» dice. «Dio, che stupida. Ho persino pensato che non fosse più necessario controllarti lo zaino.» Scuote la testa, delusa.

«Non è colpa sua!» intervengo.

«Zitta!» ordina Emma. «Non voglio più sentirti parlare. Da oggi in poi puoi scordarti ogni libertà che ti è stata concessa: dovrai essere presente ad ogni pasto e sforzarti di mangiare, altrimenti aumenteremo la dose di integratori alimentari nella sacca» dice, lanciando un'occhiata al sondino. «Allo stesso modo, ogni tuo movimento dovrà essere supervisionato da un membro dell'équipe medica.»

«No!» protesto.

Lei mi guarda furiosa. «Non sei nelle condizioni di poter obiettare. Questa è la seconda volta che ci prendi per il culo: voglio evitare che ce ne sia una terza.» Afferra la bilancia che è ancora appoggiata al pavimento, poi fa per uscire; quando si trova sulla soglia della porta, si volta verso Beatrice: «Torna a casa» dice, con tono fermo. «È meglio.» Poi si rivolge a me: «Ti voglio vedere tra due minuti nella sala comune al piano terra. Non ammetto repliche.»

Esce.

Teresa, invece, rimane appoggiata allo stipite della porta con un'espressione grave sul viso.

«Mi dispiace» mormora di nuovo Beatrice.

La mia psicologa la guarda. «Anche a me.»

«Non potrò più venire a visitarla?»

«Certo che puoi» replica. «Però non avrete più la possibilità di rimanere da sole. Mi dispiace, ma questa cosa è imperdonabile.» Si avvicina alla mia amica e dice: «Sono certa che tu non sia una brutta persona, Beatrice. Sono sicura che, nonostante sapessi di compiere un'azione proibita, e perciò cattiva per la salute di Méabh, l'abbia fatto perché pensavi di renderla felice. E così è stato, immagino; vero?» Beatrice annuisce debolmente. «Ma, purtroppo, non sempre rendere felice qualcuno significa fargli del bene. E bisogna imparare a fare ciò che è meglio per le persone che amiamo, prima di accontentarle.»

SPRING - Storia di una ragazza che deve reimparare a vivereDove le storie prendono vita. Scoprilo ora