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«Si sta riprendendo!» La voce di mia madre arriva alle mie orecchie leggermente ovattata.

Apro gli occhi: la sua faccia, quella di mio fratello, di Emma e di un paio di infermiere mi impediscono di vedere il cielo, ma l'aria fredda e umida che fa rabbrividire la mia pelle è un chiaro segno che io mi trovi ancora all'aperto. Provo a mettermi seduta sul suolo, ma la direttrice mi intima di rimanere sdraiata appoggiando al mio petto una mano.

«Sta arrivando una sedia a rotelle» mi informa.

La guardo, perplessa. «Perché? Le mie gambe funzionano benissimo.»

Mentre sospira, i suoi occhi si chiudono; le sue palpebre rimangono abbassate per un paio di secondi, infine si alzano, mostrando le iridi nocciola che circondano le sue pupille. «Non possiamo più permetterti di camminare, Méabh, mi dispiace. Sei troppo debole.»

Sento la mente annebbiarsi di nuovo, ma mi impongo di rimanere vigile. Devo dimostrare loro che le cose non stanno come pensano; devo convincerli che sto bene, che ho solo la pressione un po' bassa a causa del sole battente, che ho semplicemente bisogno di dormire per un paio d'ore. «No, grazie» dico. «Seriamente, non mi serve.» Lo sforzo che faccio per mettermi a sedere e, poi, per alzarmi in piedi è disumano, così tanto che mi sembra di avere dei mattoni appesi alle caviglie che mi trascinano verso il suolo, ma tento di non farci troppo caso. Le espressioni sul loro volto sono un miscuglio di preoccupazione e sorpresa mentre mi guardano dirigermi verso l'ingresso della struttura; Valeria, che sta spingendo la sedia a rotelle vuota, si blocca sul sentiero che porta alla panchina davanti alla quale sono svenuta, voltandosi verso di me. Prova a chiamarmi e non le rispondo, perché la mia concentrazione, ora, è rivolta ai passi che mi separano dal tappeto di fronte al camino della sala comune.

Quando finalmente mi siedo sul tessuto morbido del divano, mi viene voglia di arrendermi. Sono stanca, anzi, sono stremata, ma non posso permettere che mi trovino sdraiata ad occhi chiusi. Quando, tra una manciata di secondi, il gruppo entrerà dentro questa stanza, io devo sembrare indifferente, tranquilla, piena di forze. Devo convincerli che potrei correre fino a casa senza fermarmi nemmeno una volta, se fosse necessario, anche se non è vero. Anche se, in realtà, non riuscirei neanche ad arrivare a mezzo chilometro da qui senza cadere a terra.

«Méabh!» grida mia madre; subito dopo sento le sue braccia stringermi.

La guardo; per la prima volta nella mia vita, ho l'impressione di non riconoscere la donna inginocchiata di fronte a me. So che è stata lei a partorirmi, so che mi ha accompagnata a scuola ogni mattina per sei anni, so che mi ha insegnato a posizionare nel modo migliore gli assorbenti, so che mi ha preparato il pranzo fino all'ultimo giorno di liceo, so che ha giocato con me finché non l'ho rimpiazzata con qualche amica, so che si è precipitata in ospedale quando la hanno chiamata per avvisarla del mio arresto cardiaco, nonostante fosse immersa nel lavoro; so che ha bisogno di tornare nel luogo in cui è nata almeno una volta all'anno, che preferisce andare in montagna durante l'estate, che impazzisce per le caramelle gommose alla fragola, che le piace decorare alla perfezione un albero che compra nuovo ogni anno e sfornare biscotti a Natale, che detesta la musica che mio fratello ascolta a volume troppo alto. Conosco mia madre meglio di me stessa, forse, ma la osservo come se non l'avessi mai vista prima. Fisso i suoi occhi verdi e ho l'impressione che la nostra connessione, quella che mi permetteva di parlarle di qualsiasi problema o dubbio avessi, quella grazie alla quale sentivo di poterle confessare quasi ogni cosa della mia vita, sia sparita. È al mio fianco da vent'anni, mi ha guardata pronunciare le prime parole, si è commossa quando ho mosso i miei primi passi verso di lei, mi ha medicato le ginocchia ogni volta che sono caduta sul cemento, mi ha aiutata a svolgere i compiti, mi ha ascoltata quando avevo bisogno di sfogarmi senza mai insistere per tirarmi fuori parole che non avevo quando volevo rimanere in silenzio, ma ora la guardo, e penso che non mi capisca più.

«Perché?» chiede, con le lacrime che inumidiscono i suoi occhi e la voce spezzata.

Le sue mani sono posate sulle mie spalle; le scrollo, per farle capire che sono infastidita dal contatto. «Perché cosa?» Sbuffo.

Lei sospira, abbassa lo sguardo. «Perché lo fai, Méabh? Hai tutto. Hai una famiglia, degli amici, un futuro brillante davanti a te; hai due occhi incredibili, e so che potrebbe sembrare vanitoso da parte mia, dal momento in cui li hai presi da me, ma non posso fare a meno di dirtelo: quel verde sa di prato primaverile, uno di quei prati di campagna sui quali mi piaceva passare il pomeriggio, quando avevo la tua età. Hai sempre avuto i capelli luminosi, lunghi, setosi, hai un naso quasi perfetto, le labbra che sembrano disegnate; sei disponibile, gentile, amorevole. Sei intelligente» dice, scandendo per bene l'ultimo aggettivo; «non capisco come una persona intelligente come te possa essersi ridotta a questo», indica il mio corpo con un dito che trema. «Sei tutto per me, per tuo padre, per tuo fratello; eppure sei un cadavere che cammina, Méabh. Perché? Cosa è successo?» Alza il capo; le sue guance sono rigate dalle lacrime che hanno portato con sé il mascara che aveva applicato con cura sulle sue ciglia già lunghe. «Perché non sei più spensierata come qualche anno fa? Cosa ti hanno fatto, Méabh?» Il suo tono di voce è disperato; sento gli occhi di tutti i presenti in questa stanza su di me, su di noi. «Perché ti stai lasciando morire?»

«Penso che dovreste andare» replico semplicemente, senza guardarla.

SPRING - Storia di una ragazza che deve reimparare a vivereWhere stories live. Discover now