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Sabato mattina.

Prima sessione di terapia familiare.

Subito dopo la colazione che non ho mangiato - tanto, ho già il sondino a nutrirmi ventiquattro ore su ventiquattro - sono seduta sull'unico divano nero della sala comune al piano terra; i miei genitori e Conor saranno qui a minuti. È la prima volta che vedrò mio padre dopo due mesi di totale assenza da parte sua - a nulla è servito il tono severo di Emma rivolto a mia madre, a nulla sono servite le sollecitazioni di Teresa: per lui, in ogni caso, è sempre stato troppo. E, così, ha deciso di rimandare il nostro incontro fino al giorno in cui fosse stato costretto a venire qui.

Oggi, finalmente, è arrivato quel giorno.

Teresa si siede di fianco a me con un sospiro; indossa un paio di pantaloni neri ed una maglia a righe bianche e rosse. Non ha mai portato il camice perché pensa che possa intimidire il paziente e, secondo ciò che dice, vuole che ci sentiamo a nostro agio con lei. A me non sembra: non riesco mai a rilassarmi in sua presenza.

Sospira rumorosamente di nuovo; poi, finalmente, si decide a parlare: «Buongiorno» dice.

«Ciao.»

«Come va?» mi chiede, e mentre lo fa sento il suo sguardo addosso.

Come d'abitudine, alzo le spalle. «Normale.»

Annuisce, come se capisse esattamente ciò che intendo. «Nervosa?»

Nervosa? Non lo so. Vorrei spiegare che non so più come mi senta, non so più cosa provi, non so più niente. Vorrei dire che mi sembra di essere un automa, che ogni cosa che faccio è meccanica e non frutto di una mia volontà: faccio esercizi di continuo perché è ciò che qualcuno - o qualcosa - dentro la mia testa mi comanda, dormo perché è buio e non perché sia stanca, mi peso perché devo farlo, mi lavo perché è così che funziona. Non sono certa di essere ancora in grado di provare emozioni e, se anche lo fossi, non saprei certo identificarle. Non so più cosa sia la felicità, la tristezza, la fiducia, la sorpresa.

Non so più perché io sia ancora qui, se sono un involucro vuoto.

«Hey» mormora Teresa, avvolgendomi le spalle con un braccio e rivolgendomi un sorriso che vorrebbe rassicurarmi. «Tranquilla, andrà tutto bene.»

La frase mi catapulta alla prima volta in cui io e Michele abbiamo realizzato che, forse, la nostra relazione non funzionava così bene come avevamo creduto. Avevo scoperto che lui era uscito con un'altra ragazza – in amicizia, stando alle sue parole – senza dirmelo; mi ero infuriata, perché non sopportavo la mancanza di dialogo, e lui si era sentito attaccato. Avevamo litigato per giorni, entrambi convinti di avere ragione, entrambi in attesa che l'altro si scusasse. Alla fine, quasi improvvisamente, era calato il silenzio. Ci eravamo seduti sul divano e, dopo qualche minuto, lui mi aveva stretta a sé. E aveva pronunciato la stessa, identica frase che è uscita poco fa dalla bocca di Teresa.

E non riesco a fidarmi della mia psicologa, perché con Michele, da quel momento, è andato tutto male.

La porta d'ingresso si apre con il solito suono; Teresa scatta in piedi e attende che anche io mi alzi, prima di raggiungere l'ingresso che è già riempito dalle voci della mia famiglia. Mia madre ha salutato Emma con un tono di voce confidenziale, quasi come se fossero amiche; Conor è stato molto più riservato, rivolgendo alla direttrice un «buongiorno» educato; mio padre, invece, non ha parlato. Probabilmente le ha rivolto un semplice cenno del capo.

La mamma si precipita ad abbracciarmi non appena raggiungo l'atrio a fianco della psicologa che, invece, si dirige verso papà per presentarsi. Mio fratello cerca di scambiare qualche battuta con me senza però diminuire la distanza tra i nostri corpi: il distacco che mantiene dovrebbe avere lo stesso effetto che ha avuto fino ad ora, eppure non provo niente. Non provo ad avvicinarmi, a toccarlo, a stringerlo: rimango ferma di fronte a lui, mentre parliamo di argomenti futili che non ci sono mai appartenuti.

SPRING - Storia di una ragazza che deve reimparare a vivereWhere stories live. Discover now