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«Méabh, hai visite.»

La voce di Emma attira la mia attenzione, poco fa dedicata alle vicende del mio mago preferito. Rifletto: è mercoledì; la mia famiglia non mi visita mai nel primo pomeriggio, e non conosco nessun altro che sarebbe disposto a guidare fino a qui, in questa clinica sperduta tra le montagne appena sopra Bologna, per me.

«Sei sicura?» chiedo, senza troppa convinzione.

Lei sospira, leggermente spazientita. «Sono sicura» dice. «Ora, per favore, alzati, o mi costringerai a cacciarla di nuovo.»

Di nuovo? Decido di non replicare; attraverso lentamente la stanza sotto gli occhi attenti degli unici due pazienti che, oggi, nessuno è ancora venuto a visitare, e seguo Emma fino all'ingresso della struttura.

La vedo molto prima di arrivare al banco dietro il quale si posiziona la direttrice: i suoi capelli lunghi, drittissimi e neri le incorniciano il viso dalla carnagione chiara; le bretelle scure del suo zaino blu elettrico contrastano con il rosa pallido della maglietta che indossa e le tasche dei suoi jeans mostrano un rigonfiamento dove ha infilato il pacchetto di sigarette.

«Finalmente!» grida. «Sono tre giorni che vengo e non mi permettono di vederti. Tre giorni!»

Emma parla prima che possa dire qualsiasi cosa: «Questa ragazza dice di conoscerti. È vero?»

«S... sì» rispondo, con un sussurro; vorrei aggiungere qualcos'altro, vorrei muovermi verso questa ragazza che ha guidato per sei ore in tre giorni per vedermi senza conoscermi nemmeno, ma il mio corpo è paralizzato e, con esso, anche ogni corda vocale.

«Bene; passami il tuo zaino, per favore» ordina, rivolta a lei, che obbedisce in silenzio; la donna fa scorrere la cerniera e affonda le mani all'interno della sacca di tessuto come se stesse cercando qualcosa.

«Cosa sta facendo? Cosa pensa di trovare?» La voce di Beatrice risuona nel silenzio del piccolo atrio, riportando me alla realtà e facendo riemergere il naso di Emma dal suo zaino.

«Spero di non trovare nulla» replica lei; il suo tono è severo, ma non accusatorio. «Devo controllarlo per assicurarmi che non ci siano lassativi, medicinali che a Méabh non servono, rasoi ed altri oggetti potenzialmente pericolosi.»

«Non sono autolesionista» dico, stringendo i denti.

«In un certo senso, lo sei» mormora Beatrice, e lo fa così piano che sono certa che non avrei dovuto sentire il suo commento.

Poco dopo, Emma le consegna lo zaino e ci permette di passare non più di due ore al piano superiore, nella mia stanza, con la porta spalancata. Lei sale le scale come se stesse volando, saltando un gradino ogni volta, con un'energia che non mi appartiene da tempo; il solo atto di guardarla mentre appoggio un piede sullo scalino e contraggo ogni muscolo mi fa sentire esausta e, quando lei è arrivata in cima e si volta verso di me per aspettarmi, io sono appena a metà.

«Lenta!» mi accusa, puntando gli occhi all'orologio appeso alla parete e poi portandosi una mano davanti alla bocca che si apre in un falso sbadiglio.

Se le rispondessi, il tempo che impiegherei a raggiungerla triplicherebbe; quindi appoggio un piede dopo l'altro sui gradini e, solo quando mi trovo finalmente di fronte a lei, mi giustifico: «Sono fuori allenamento. Qua dentro mi è permesso solo di stare ferma.»

«Sono tutte scuse, Inebriante» dice in tono canzonatorio, alludendo al significato del mio nome, mentre percorriamo il corridoio intervallato dalle porte di accesso alle diverse stanze, ora chiuse. Inserisco la chiave nella serratura della mia - le altre verranno aperte dopo la merenda delle quattro - e giro, aprendola.

SPRING - Storia di una ragazza che deve reimparare a vivereDove le storie prendono vita. Scoprilo ora