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Beatrice, giovedì, non è tornata.

Ovviamente me lo aspettavo, visto come era scappata il pomeriggio precedente; ma, forse, una piccola parte di me sperava che qualcuno disturbasse anche ieri la mia lettura per annunciarmi una visita che, però, non è arrivata.

Oggi è passata una esatta settimana dall'inizio del mio soggiorno qui; non conosco il mio peso, ma l'espressione sconsolata che si dipinge sul viso di Valeria ogni mattina, mentre io rimango ferma sulla bilancia, è piuttosto eloquente, ed io sono incredibilmente soddisfatta del metodico lavoro che svolgo quotidianamente.

Di fronte all'entrata della stanza dedicata alle sedute con la mia psicologa, attendo Teresa picchiettando le dita delle mani sulle mie cosce; questi semplici movimenti aiutano i più complessi esercizi di ginnastica a consumare ogni caloria che assumo durante il giorno, senza dare nell'occhio.

Temo che mi possa chiedere di Beatrice, quando io non ho alcuna voglia di parlarne. In realtà, non ho voglia di parlare di nulla. Non ho voglia di parlare, e basta.

Se iniziassi travolgerei la mia interlocutrice con la stessa impetuosità di un fiume in piena, e io ho paura di dare voce ai miei pensieri più nascosti, alle mie insicurezze, ai miei dubbi, alle mie ossessioni; ho paura di esternare ciò che riempie la mia testa, così preferisco tacere. Mi piace lasciare le domande della psicologa galleggiare nell'aria senza alcuna risposta, mi piace il silenzio imbarazzato che riempie ogni spazio della stanza, mi piace vedere la povera psicologa tentare invano di strapparmi qualche parola.

Il rumore sommesso dei passi di Teresa sul pavimento annuncia il suo arrivo; qualche secondo più tardi la sua figura compare dall'angolo del corridoio che porta all'ingresso principale della struttura. Ha una mano infilata nella tasca destra del suo cappotto, la lingua che sporge appena dalle labbra e gli occhi socchiusi, nell'evidente sforzo di cercare le chiavi che aprono la stanza.

Finalmente le estrae; la sua bocca si apre in un sorriso vittorioso mentre muove il passo che la separa dalla porta e la apre. «Scusa il ritardo» dice. Entra e, senza aspettare che la segua, si dirige verso la finestra per aprire le imposte; la luce inonda l'ambiente proprio mentre prendo posto sul solito divano color antracite. Dopo essersi sfilata la giacca ed averla appesa allo schienale di una sedia che non userà si siede di fronte a me, su una poltrona. «Allora» esordisce.

«Allora» ripeto.

«Come è andata questa prima settimana?»

Alzo le spalle; come è andata questa settimana? Mi obbligano a mangiare cibo che mi fa venire la nausea, mi fanno dormire in un letto troppo grande che non si scalda mai completamente, mi costringono ad uccidere di esercizi il mio corpo già esausto, ho i piedi costantemente congelati, mi sento vagamente bene solo davanti al fuoco del camino ed, ogni volta che lo guardo, ho solo voglia di gettarmici dentro e sperare che finisca tutto in fretta; sono stremata, mentalmente e fisicamente, dalle relazioni che non ho e che la gente si aspetta che abbia, dai miei silenzi e dalle parole della mia Voce, dai pensieri che ossessionano la mia mente, dall'insistenza di tutti i medici e della mia famiglia.

«Non hai voglia di parlarne?» domanda.

Guardo verso la finestra ed oltre il vetro che separa questa stanza dal mondo esterno, e penso che vorrei uscire per cinque minuti. Vorrei dell'aria fresca, vorrei sentire il sole sulla mia pelle color panna, vorrei udire il rumore fastidioso delle auto sulla strada, quello allegro degli uccelli che emettono gli ultimi cinguettii prima di partire per un luogo più caldo, quello rilassante del vento che soffia tra le foglie appena ingiallite degli alberi. Vorrei tante cose, ma non stare in questo posto.

«Ho saputo che ti è venuta a trovare un'amica» dice.

Il mio sguardo torna nuovamente, di scatto, su di lei. «Non è mia amica.»

La sua bocca si apre leggermente, in segno di stupore; non so se sia per ciò che ho detto o per il fatto che io abbia finalmente proferito parola. «A me sembrava di sì. Ho-»

«A te sembrano troppe cose che non sono» la interrompo.

«Questa ragazza è venuta qui per quattro giorni consecutivi nonostante le avessero detto più volte che non avresti potuto riceverla, Méabh. Se non fosse tua amica, dubito che si sarebbe presa il disturbo di guidare fino a qui anche solo una volta.»

«Ti hanno detto anche che se ne è andata come se le avessi dato uno schiaffo? Ti hanno detto che il suo umore è cambiato completamente in meno di un secondo?»

Abbassa lo sguardo.

«No, vero?» continuo; la sua risposta non arriva. «Sei sempre convinta che io abbia un'amica?»

«Méabh.» Il mio nome, pronunciato dalla sua voce dolce, è seguito da un sospiro. «Non lo sapevo, è vero» ammette, «ma sono comunque convinta che ti voglia bene. Hai fatto o detto qualcosa che potrebbe avere provocato quelle reazioni?»

«No, sono solo stata sincera.»

«In che modo?»

«Lei mi ha offerto la sua compagnia, io ho rifiutato.»

Aggrotta le sopracciglia, confusa. «Perché?»

«Non penso che sarebbe giusto. L'ho fatto per il suo bene, non per il mio» chiarisco. «Senti, ho già una quantità enorme di relazioni finite a causa mia sulla coscienza. Voglio solo proteggerla.»

Sul suo viso si dipinge un sorriso affettuoso. «Le vuoi bene, allora.»

«C'è qualcosa di sbagliato?»

«No, affatto; per questo penso che dovresti darle una possibilità.»

Alzo gli occhi al cielo. «No. Non sono una buona persona da avere accanto» dico. «Non sono io a non volerle dare una possibilità; voglio che lei non ne dia nessuna a me.»

«È venuta fino a qui per quattro giorni consecutivi» mi ricorda.

«Cosa diavolo significa?»

«Significa che è una persona determinata. Tornerà, vedrai.»

«Credimi, non lo farà. Non hai visto la sua espressione.»

«La rabbia svanisce, Méabh. Sempre.»

«No, non era solo rabbia. Era delusione, dolore, odio, frustrazione, ira. Non riguardava solo me... c'era dell'altro. Non so che cosa.»

«Perché non hai provato a chiederle quale fosse il problema?»

Sbuffo. «Perché è scappata, Teresa. Io le ho detto che andava bene, che avrei accettato la sua compagnia, e lei è uscita dalla porta, semplicemente.»

«Avresti potuto seguirla, non credi?»

«Credo tu conosca la mia scarsa destrezza, no?»

«Strano» dice; i suoi occhi si rivolgono al soffitto, come ogni volta che riflette, e l'indice destro gratta leggermente la guancia. «Molto strano, perché sembri piuttosto agile, quando svolgi i tuoi esercizi.»

Oh, merda. Sento la bocca schiudersi appena in segno di stupore, i miei occhi sgranarsi, il battito accelerato del mio cuore rimbombarmi nei timpani. Non ho fatto altro che bruciare calorie di nascosto per ore ogni notte, e loro, per tutto questo tempo, non hanno fatto altro che fingere di non saperlo.

«Sai, Méabh» inizia; e il suo tono di voce non è accusatorio, critico o contrariato, ma riflessivo. «Dovresti dedicare un briciolo dell'agilità che doni all'ossessione per la tua immagine alle persone.»

«Come lo sapete?» le domando con un filo di voce, senza considerare la sua ultima affermazione.

Sul suo viso compare un'espressione appena divertita. «Abbiamo a che fare con ragazze che hanno il tuo stesso problema da anni; davvero credi di poterci ingannare?»

SPRING - Storia di una ragazza che deve reimparare a vivereDove le storie prendono vita. Scoprilo ora