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A quanto pare, mio padre non è lo stronzo menefreghista che credevo.

A quanto pare, per lui tutto questo era davvero troppo. Troppo doloroso, troppo pesante, troppo da sopportare. Non che per mia madre non lo fosse: durante quest'ultima sessione di terapia familiare ho scoperto che non è raro che i miei genitori piangano, la sera, insieme sul divano o in due stanze diverse, sperando che mio fratello non li senta. Ho scoperto che Conor non esce con i suoi amici dal mio arresto cardiaco, che dopo gli allenamenti di basket scappa a casa e non fa altro che ascoltare musica per ore, che i suoi compagni hanno smesso di invitarlo alle feste, a cena a casa loro, perché ha rifiutato così tante volte che, ora, nemmeno lo chiamano più. Ho scoperto che a lui va bene così, che non vuole uscire, che ha tagliato i ponti con la sua ragazza e che non ha intenzione di conoscerne altre.

Ho scoperto che la mia famiglia ha smesso di andare a mangiare nel solito, vecchio ristorante il sabato sera, dopo le partite di mio fratello; che mia madre non cucina più, nemmeno la domenica mattina - aveva continuato a cuocere pile di pancakes persino dopo la morte di sua madre; ho scoperto che hanno sospeso le gite familiari, che l'unico canale televisivo che guardano è il mio preferito, quello che hanno sempre detestato, che persino i nostri cani non giocano più volentieri come quando ero a casa.

Papà mi ha detto che, a volte, la mamma dorme nel mio letto; lei si è accusata di aver trascurato mio fratello, negli ultimi tempi; Conor le ha detto che va bene così; che, tanto, non vuole le sue attenzioni: sostiene che i professori, a scuola, gliene diano abbastanza - persino troppe.

Io non ho parlato per nulla: ho ascoltato le loro parole, le ho metabolizzate, ho lasciato che si imprimessero nella mia mente. Ognuna di esse non ha fatto altro che schiacciarmi sempre di più: mi sono sentita piccola, sicuramente indegna, sbagliata. Ho realizzato di essere abbastanza forte da rendere miserabili le persone che mi stanno accanto, eppure troppo debole per rialzarmi in piedi ed uscire da un baratro in cui mi sono calata da sola.

Ho versato lacrime silenziose per ogni loro confessione. Ho osservato quella famiglia distrutta da me e dalla mia malattia: vicini l'uno all'altro - mia madre aveva appoggiato le mani sulle spalle tremanti di papà -, sembravano incredibilmente uniti e, allo stesso tempo, tremendamente distanti. Il loro dolore aveva una causa comune, ma preferivano affrontarlo ognuno per sé, ognuno in un modo diverso.

Seduta davanti ad un vassoio riempito di pasta al pomodoro, zucca e ceci, nella sala da pranzo, circondata da altre undici persone che masticano il loro cibo senza, almeno apparentemente, alcun problema, penso che vorrei avere il coraggio dei miei familiari: quel coraggio che permette loro di combattere una guerra che non li riguarda e che sembra - è - persa; quel coraggio che li rende capaci di risollevarsi anche dopo aver pianto per ore, ognuno in una stanza diversa della nostra casa; quel coraggio che li spinge a rimanere positivi anche se non ci sono più motivi per esserlo.

Invece, mi accorgo che io, di coraggio, non ne ho nemmeno un briciolo: guardo quei maccheroni che stanno diventando freddi davanti ai miei occhi e non riesco nemmeno a ordinare alla mia mano di impugnare la forchetta alla destra del piatto. Non riesco, perché non sono mai stata più consapevole del sondino che entra nella mia narice sinistra e arriva fino al mio stomaco: posso quasi sentire quel liquido marrone chiaro carico di calorie arrivare a destinazione, riempirmi, gonfiarmi come un palloncino. Non ce la faccio, non posso farcela, non succederà ora né tra qualche giorno, settimana o mese, non succederà mai. Non riuscirò mai più a godermi un vero pasto, a masticare patatine o un trancio di pizza o dei biscotti senza sentirmi in colpa per tutto quel grasso che, una volta arrivato nel mio stomaco, finirà dritto sulle mie cosce, sulla mia pancia, sulle mie braccia. Non riuscirò mai più a toccarmi le ossa senza capire se io abbia perso o preso peso, non riuscirò mai più a mangiare a tarda notte insieme ai miei amici come facevo una volta, non riuscirò mai più a vedere lo sport come una semplice valvola di sfogo e non come uno strumento per dimagrire, non riuscirò mai più a non confrontare il mio corpo con quello di ogni altra persona che incontro.

Non riuscirò mai più a vivere; e allora, che senso ha fare ancora parte di questo mondo?

SPRING - Storia di una ragazza che deve reimparare a vivereWhere stories live. Discover now