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La prima cena è davvero dura.

I pasti vengono serviti in una stanza piuttosto ampia, tanto da risultare un po' vuota. Due pareti consecutive sono state dipinte di un deciso color borgogna, le rimanenti sono bianche; il pavimento è in laminato, al soffitto sono incassati dei piccoli fari che emettono una luce bianca e brillante. Al centro vi è un tavolo lungo in legno di cedro, circondato da dodici sedie color arancio ed imbottite; a sinistra dell'arco che mette in comunicazione la sala da pranzo e il salone si trova un bancone dello stesso colore delle pareti tinteggiate che termina lungo il muro adiacente; su esso sono appoggiati i condimenti, le spezie, un paio di macchine del caffè e altrettanti bollitori elettrici per il tè; dal lato opposto, invece, molti scaffali ospitano tazze colorate, bicchieri, piatti e parecchie altre stoviglie. Due quadri enormi, raffiguranti un uovo all'occhio di bue e un piatto pieno di verdure colorate, occupano la parete rimanente; tra essi è appesa una lavagna sulla quale è stato scritto il menù della giornata: questa sera verranno serviti pane, patate, pesce impanato o carne di pollo e verdure condite.

Quando entro nella stanza, tutti gli altri pazienti sono già seduti e stanno aspettando che il cibo venga servito. Molti di loro – tutti quelli che non mi hanno già esaminata nel pomeriggio – posano lo sguardo su di me; la prima cosa che osservano è il mio corpo, l'ultima è il viso.

La direttrice della clinica, Emma, entra nella stanza pochi secondi più tardi e si ferma di fianco a me, appoggiando una mano sulla mia spalla destra. «Ragazzi, questa è Méabh» annuncia, pronunciando il mio nome come pochi sanno fare, con un sorriso enorme stampato sul viso. Lo fisso incerta, tentando di cogliere un tentennamento, un segno che mi dimostri la sua falsità. Invece, se possibile, la sua bocca si apre ancora di più.

Emma mi invita a prendere posto di fianco ad una ragazza dalla pelle scura e gli occhi luminosi che mi dice di chiamarsi Anaya, di avere diciassette anni e un padre assente, di essere stata ricoverata all'inizio di marzo; per molti minuti mi fornisce informazioni che non mi interessano affatto. Il suo corpo è esile, ma per nulla spigoloso, a differenza del mio; indossa una maglietta a maniche corte molto più grande di lei, e non ho bisogno nemmeno di toccare il tessuto per comprendere che sia leggero. Sono quasi certa del fatto che il suo percorso, qui, sia ormai terminato; presto le sarà permesso di uscire e decidere se continuare a camminare diritto o tornare sui suoi passi.

Nel mezzo del monologo che non sto ascoltando, il nome di Anaya viene pronunciato da un uomo sui trent'anni, alto e sbarbato, che si trova sulla soglia di una porta che deve portare alla cucina. Lei si alza e lo raggiunge; lui le passa attentamente un vassoio in plastica sul quale sono appoggiati due piatti, uno più grande e uno più piccolo. Infine, con la sua cena tra le mani, Anaya torna a sedersi accanto a me, senza tuttavia riprendere a parlare. A turno, ognuno degli altri pazienti compie gli stessi esatti movimenti; sembrano automi comandati a distanza, e devo distogliere lo sguardo perché la scena mi fa pena. Ci sono altre nove persone oltre a me e alla mia vicina, di cui due ragazzi e sette ragazze. Alcuni di loro sono piuttosto magri, altri hanno molta più carne tra la pelle e le ossa, una ha le cosce un po' piene; nessuno di loro presta più attenzione a me, ora che hanno il cibo davanti. Mentre attendo che venga chiamato il mio nome, sbircio con la coda dell'occhio i diversi alimenti nel piatto di Anaya: ci sono patate al forno che profumano di burro, carote condite, tre fette di pane integrale, un filetto di merluzzo ricoperto di pangrattato.

«Méabh» sento. Mi alzo lentamente; la stanza è intrisa di aromi invitanti, ma non ho per niente voglia di ingurgitare qualcosa. Mentre cammino verso l'uomo, osservo i vassoi degli altri: vedo pesce, patate, ogni genere di verdura annegata nell'olio. Le porzioni variano dipendentemente dal proprietario dei piatti; qualcuno ha davanti a sé del petto di pollo al posto del merluzzo, ad altri le carote sono state sostituite con verdure differenti. I due piatti destinati a me sono pieni di fagiolini, patate e pesce; un panino che sembra superare di parecchio i cento grammi affianca il resto del cibo. Afferro il vassoio e torno al mio posto, osservando con disgusto la cena.

SPRING - Storia di una ragazza che deve reimparare a vivereWhere stories live. Discover now