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Qualcosa è cambiato un sabato pomeriggio, più di sei mesi dopo la nostra rottura. Le mie amiche mi avevano obbligata a raggiungerle in centro. Volevano fare un giro, guardare le vetrine dei negozi, mangiare un gelato. Io mi ero opposta, loro avevano insistito. Ho avuto paura che si sarebbero arrabbiate, perché sapevo che se ci fosse stato Michele, al loro posto, avrebbe iniziato a darmi della pigra, della sfaticata ed infine avrebbe optato per lasciarmi a casa ed uscire con qualcun altro, qualcuno migliore di me, qualcuno che non lo avrebbe innervosito né contrariato.

Le mie amiche sembravano davvero contente che fossi uscita. Era parecchio tempo che non lo facevo - negli ultimi mesi avevo messo i piedi fuori di casa quasi esclusivamente per andare a scuola - e avevano sentito la mia mancanza. Io mi stavo divertendo abbastanza; per la prima volta da quando ci eravamo lasciati stavo ridendo di gusto, senza pensare a lui.

Poi, però, ci siamo imbattuti l'uno nell'altra. Io e le mie amiche uscivamo da un negozio in cui avevo comprato un paio di jeans e qualche maglietta, lui entrava. Io stringevo nella mano le maniglie di una busta, lui la mano di un'altra ragazza. Non ho nemmeno guardato lei, non saprei dire se fosse carina, meglio di me, peggio di me. Ho guardato solo lui, l'espressione sul suo viso mentre mi squadrava il corpo, un corpo su cui aveva appoggiato le mani molte volte e che ora i suoi occhi sembravano non riconoscere.

«Méabh?» ha detto, con un tono leggermente interrogativo, come se si stesse domandando se fossi veramente io.

Ho seguito il suo sguardo, poggiato sulla mia pancia appena sporgente. Mi sono vergognata, perché sapevo di aver preso qualche chilo - tre, per la precisione - ma pensavo che non si vedessero. Nessuno mi aveva mai guardata diversamente, nessuno me li aveva mai fatti notare. Li sentivo, perché i jeans iniziavano a starmi stretti, ma nessuno mi aveva mai squadrata con... disgusto, quasi. «Ciao» gli ho risposto, il mio tono flebile, mentre cercavo di trattenere le lacrime. Sono scappata fuori dal negozio senza nemmeno aspettare una sua risposta, senza controllare se le mie amiche mi stessero seguendo o meno.

Quella sera mia madre aveva preparato delle crespelle ripiene di funghi e prosciutto. Io le ho aperte tutte, una per una; ho mangiato solo i funghi, poi mi sono alzata da tavola e sono corsa in camera mia. Mi sono spogliata, mi sono guardata allo specchio. Ero alta un metro e sessantanove centimetri e pesavo sessanta chilogrammi. Le mie gambe erano ancora abbastanza toniche nonostante non mi allenassi da mesi, ma sulla pancia iniziava ad accumularsi della carne di troppo.

È stato allora che ho deciso di iniziare una dieta; tuttavia non volevo tornare al mio peso iniziale. Se, prima di ingrassare, pesavo cinquantasette chili, adesso perché qualcuno notasse un mio dimagrimento avevo bisogno che la bilancia segnasse un numero più basso. Il mio obiettivo iniziale era raggiungere i cinquanta chili: ero certa che allora avrei riacquisito la mia spensieratezza, la mia allegria, che avrei potuto rimettermi in gioco, ricominciare la mia vita.

Non mangiare mi faceva sentire bene; meglio, persino, di quando riempivo il vuoto con il cibo. Mi dava l'impressione di avere sotto controllo qualcosa, una parte, anche se minima, della mia vita. Mascheravo l'inappetenza dietro la tristezza; i miei genitori erano rimasti spiazzati dal mio cambio repentino di rotta e non sapevano come affrontare il discorso né come aiutarmi, quindi mi lasciavano fare. Erano certi, sono sicura, che il mio rifiuto del cibo non sarebbe durato a lungo, non più di un mese; mi avevano vista mangiare con gusto per mesi, non pensavano che avrei potuto resistere. Pensavano, forse, che dopo un periodo di abbuffate e un altro di dieta avrei ricominciato a mangiare normalmente.

Ma io sentivo di non meritare nulla di buono. Riempivo la lista della spesa di cibi che avevo sempre detestato, perché non ero degna di biscotti, cioccolato, pizza. Meritavo di nutrirmi di spinaci, melanzane, cavolo, crusca. Piangevo ogni volta che arrivava l'ora dei pasti. La mia famiglia assisteva impotente a questa missione di autodistruzione; si mangiava in silenzio, a disagio. Mi guardavano finché non mi alzavo dalla sedia, con quella verdura disgustosa che avevo appena toccato ancora sul piatto.

SPRING - Storia di una ragazza che deve reimparare a vivereWhere stories live. Discover now