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Questo pomeriggio scorgo dalle ampie finestre della sala comune al piano terra l'auto di Beatrice che si infila nel parcheggio della clinica e, subito dopo, in un posto vuoto. Vittoria mi ha lasciata poco fa per la sessione con Grazia, la sua psicologa; mi chiedo il motivo per cui vogliano ancora vederla, dal momento in cui rimane nel più assoluto silenzio per tutta la durata della seduta. Ma, d'altronde, all'inizio - qualche volta, anche adesso - anche io non pronunciavo nemmeno mezza parola; e nemmeno Teresa si è mai arresa.

Mi alzo lentamente in piedi appoggiandomi al bracciolo del divano su cui sono seduta, afferro la sbarra di metallo alla quale è appesa la sacca che mi nutre, cammino molto più lentamente di quanto vorrei verso l'atrio della struttura. Beatrice ed io entriamo nel piccolo ingresso nello stesso, esatto momento.

Corre ad abbracciarmi, allegra come al solito, poi si rivolge ad Emma: «Buon pomeriggio» la saluta; si sfila dalle spalle le bretelle dello zaino e lo appoggia sul bancone.

La direttrice accenna un sorriso educato, facendo scorrere la cerniera metallica. «Ciao, Beatrice.» Infila una mano all'interno e controlla attentamente il suo contenuto, accertandosi che la mia amica non stia tentando di recapitarmi di nascosto qualcosa che non ho il permesso di avere.

«Tranquilla, nessuna bilancia» assicura Beatrice, arrossendo leggermente.

Emma chiude lo zaino e lo spinge verso di lei. «No, sembra di no» ammette. «Ma dovrete ugualmente rimanere sotto la sorveglianza delle infermiere.»

Come le prime volte, Bea fa del suo meglio per mantenere il mio ritmo, ma finisce per accelerare senza accorgersene; è già all'interno del salone comune quando io raggiungo la soglia. Si volta verso di me, indicandomi un divano a due posti color pesca. «Va bene?» domanda; al cenno del mio capo si lascia cadere sul cuscino e, poco dopo, anche io faccio lo stesso.

«Come stai?» domando.

Lei sospira. «È difficile.» Guardo il suo petto alzarsi ed abbassarsi ritmicamente, osservo i suoi occhi chiudersi, poi riaprirsi. «Non intendo che sia difficile da spiegare» riprende poi. «È difficile sopportare questa situazione. È difficile vivere con la consapevolezza che ogni giorno potrebbe essere il giorno, è difficile vivere, invece, senza la certezza che lei riesca ad arrivare alla mattina seguente. Non so se arriverà al mio compleanno, a Natale, al nuovo anno» dice. «È logorante.»

«Mi dispiace tanto.»

«Sì, anche a me» concorda. Dopo una manciata di secondi, si volta verso di me e chiede: «e tu? Come stai?»

«Come al solito. Arrabbiata.»

«Sai che non dovresti esserlo.»

«Sì, lo so. Qualche giorno fa, durante l'ora di scrittura creativa, la responsabile ha chiesto di spiegare cosa fosse l'amore incondizionato e, alla fine, ho realizzato che probabilmente i miei genitori lo provano, per me. Ho capito che mi hanno rinchiusa in clinica perché vorrebbero che cambiassi idea. Ho capito che, secondo loro, potrebbe aiutarmi. Ma sono arrabbiata lo stesso.»

«Sei ancora convinta di quello che pensi, allora?»

I suoi occhi ghiacciati sono incatenati ai miei, cercano di scavare, di scorgere, da qualche parte, un segno di tentennamento; ma non lo troveranno. «Perché non dovrei?»

«Non so, pensavo che qualcuno, o qualcosa, ti avesse fatto aprire gli occhi.»

«I miei occhi sono già aperti.»

Sbuffa. «Come va con la tua nuova amica?»

«Vittoria? Bene. Hanno messo il sondino anche a lei, sai? È successo qualche giorno fa; ma non si è ancora rassegnata. Ogni giorno se lo sfila, e ogni giorno glielo rimettono. Adesso sta cercando di escogitare un piano per fare in modo che gli integratori non arrivino al suo stomaco, ma per il momento non le è venuto in mente nulla.»

«E tu cosa ne pensi?»

«Secondo me è una cosa ridicola» replico. «Io ho pensato persino di lasciare che mi riempiano come un maiale finché non li soddisferò abbastanza da lasciarmi andare; ma il mio piano è rimasto quello dell'inizio, ossia aspettare che scada la scommessa con la mia psicologa.»

«Fino a quando dovrai aspettare?»

«Il 21 gennaio.» Appoggio la testa allo schienale del divano. «Lo so, manca ancora parecchio tempo...»

«È poco più di un mese» mi interrompe Beatrice. «Non è così tanto, in realtà. Cosa farai se dovessi perdere?»

La guardo contrariata. «Non succederà» le assicuro.

«Lo so» dice; ma il suo tono di voce è poco convinto: non so se pensi che non sia così determinata o, piuttosto, se lo speri. Infila una mano nello zaino e ne estrae una barretta al cioccolato e burro d'arachidi; la scarta, appallottola l'involucro arancione e lo appoggia sulle sue ginocchia. Infine, dà un minuscolo morso a quell'ammasso di grassi e calorie. «Scusa» dice, con una mano davanti alla bocca piena. «Non ho pranzato, oggi» spiega. «Subito dopo le lezioni sono passata dalla mamma, sono rimasta con lei un paio d'ore e sono venuta qui.»

Mi sforzo di sorridere; in realtà sento il mio stomaco ribollire e  pregarmi di rubare quella barretta e di ingurgitarla in un solo boccone. «Tran...» Provo a dire, ma mi blocco a metà. Mi schiarisco la gola e ritento: «Tranquilla.»

«Sicura?»

«Sì» le garantisco. «È solo... quella barretta è la mia preferita da sempre.»

«Oh» dice; la sua bocca si schiude in segno di stupore. «Scusa! Non te l'ho chiesto perché pensavo fosse di cattivo gusto.»

No, no, no, ti prego. Ti prego stai zitta, per favore, non proferire parola, mangia in silenzio, ti imploro, no, non offrirmi quella...

«Ne vuoi un po'?» domanda, invece, porgendomi la barretta.

Devo mordermi le guance, le labbra, la lingua per impedirmi di addentarla. «No, ti ringrazio.» Poi, di nuovo, devo mordermi le guance, le labbra, la lingua per impedirmi di urlare. «Non ho fame» mento. Perché la verità è che, invece, di fame ne ho, e anche tanta; sento che potrei finire l'intero menù di qualunque ristorante, per quanta fame ho. Ne ho tanta, da tanto tempo; semplicemente, ho imparato a metterla a tacere, a sopportare i crampi e ad ascoltare, invece, le grida della mia Voce. Perché quest'ultima, durante i tre anni che abbiamo passato insieme, mi ha aiutata; la fame, invece, no. Mai.

Osservo Beatrice masticare con naturalezza; nei suoi occhi non c'è alcun segno di ansia, preoccupazione o paura. Cerco di ricordarmi l'ultima volta che ho mangiato senza pensare alle calorie, ai grassi, ai carboidrati, agli zuccheri; mi chiedo se sarò di nuovo capace di farlo, un giorno, o se morirò con la stessa angoscia che invade ogni singola cellula del mio corpo qualunque cibo stia assumendo.

È quasi a metà della barretta quando il suo cellulare squilla; la suoneria è una canzone di qualche anno fa. «Scusa, Méabh, devo rispondere» dice. Io annuisco, la guardo alzarsi dal divano, muovere qualche passo verso la finestra. Non sento le sue parole, ma vedo la sua espressione cambiare radicalmente.

«Devo... devo andare» annuncia, con la voce rotta, una volta conclusa la chiamata. Afferra il suo zaino, senza chiuderlo, e mi abbraccia: «Non so quando tornerò» dice. «Non fare stronzate.»

Provo a muovere qualche passo insieme a lei; vorrei accompagnarla alla porta d'ingresso. «No, lascia stare. Mi dispiace, Méabh, non ho tempo da perdere. Non posso aspettarti.»

«Dimmi cos'è successo, almeno!»

Tira su col naso. «È la mamma» dice. «È...»

Non riesce a pronunciare il resto della frase, ma non ce n'è bisogno. Mi dà le spalle, e scompare oltre la porta.

Ai piedi del divano c'è l'involucro appallottolato della sua barretta lasciata a metà.

SPRING - Storia di una ragazza che deve reimparare a vivereWhere stories live. Discover now