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Vittoria è stupenda.

Dalla partenza di Anaya, io e l'ultima arrivata siamo diventate inseparabili. Forse tutto questo è dovuto anche all'assenza di Beatrice, che non si fa vedere né sentire dal giorno in cui i medici hanno scoperto della bilancia. Come se l'avvenimento avesse portato complicazioni a lei.

Io e Vittoria ci sediamo l'una di fianco all'altra durante le ore dei pasti, discutiamo sulle calorie che pensiamo contenga questa o quella porzione di cibo, guardiamo con disgusto gli altri pazienti che si ingozzano e ne parliamo a bassa voce, li deridiamo perché non hanno la nostra stessa forza, conveniamo su quanto sia deprimente la loro debolezza. Vittoria si lamenta perché ogni mattina Valeria controlla il suo peso e tenta di farle cambiare idea; mi piace osservarla mentre alza gli occhi al cielo con quell'espressione esasperata sul viso e poi scoppiare a ridere insieme a lei, entrambe consapevoli che nulla riuscirà a mutare la sua opinione. I medici stanno pensando di mettere il sondino anche a lei, ma Vittoria dice che preferirebbe morire, piuttosto che sottomettersi alla loro volontà; dice che è maggiorenne, che può decidere per se stessa, che non sta morendo e, di conseguenza, non ha bisogno di lasciarsi nutrire da un corpo estraneo. Parla guardando con ripugnanza il tubo di plastica che scompare all'interno della mia narice sinistra; e so che, in fondo, pensa che anche io sia debole quanto tutti gli altri pazienti di questa struttura.

Vittoria è bellissima.

Sono diventata la sua ombra perché voglio essere come lei, in tutto e per tutto: voglio le sue gambe, i suoi fianchi, le sue spalle spigolose, i suoi capelli spenti e le sue unghie rovinate. Voglio la sua risata, che mostra file di denti rovinati, voglio le sue scapole che sporgono come un paio d'ali; i suoi polsi, più piccoli di un biscotto Oreo; le sue dita affusolate, il suo bacino ossuto. E, soprattutto, voglio la sua mente, perché non si lascia convincere da nessuno; la mia, invece, ha già ceduto alle dolci parole dei dottori troppe volte, e sta iniziando a stancarmi.

Mancano poco meno di due mesi al termine della mia scommessa con Teresa; mancano poco meno di due mesi al mio trionfo. Vittoria mi chiede spesso cosa abbia intenzione di fare, una volta uscita da questo posto. Io ci rifletto un po' su, e nella mia mente si dipinge un'immagine che mi trasmette angoscia: sono io, con tutti i cuscinetti di grasso che proteggono il mio corpo, che vago sola per una strada completamente buia. La allontano subito, perché non voglio raccontarla a Vittoria - temo un suo rimprovero, temo di perdere la sua approvazione, temo di essere lasciata sola e, quindi, di finire per dare completamente ascolto ai medici. Invece, alla mia amica dico che la aiuterò a venire via con me. Le dico che vivremo finalmente secondo le nostre regole, le dico che non saremo mai più obbligate ad avere a che fare con chi non approva le nostre idee, le dico che nessuno ci potrà più costringere, le dico che andremo a vivere sul mare, le dico che non toccheremo più nemmeno una singola briciola di pane. È ciò che lei vuole sentire; ed è quello che io spero avvenga.

****

«Ciao, Méabh.»

Sono intenta ad osservare i rami degli alberi che oscillano a causa del vento quando Teresa entra in quella che, ormai, considero a malincuore la nostra stanza e chiude la porta dietro di sé. Dal suo lungo cappotto color cammello cadono sul pavimento diverse gocce di pioggia; le sue guance e la punta del suo naso sono arrossati per il freddo.

«Scusa per il...» L'ultima parola viene sovrastata dal rombo di un tuono. «... Ritardo» ripete quindi, sfilandosi la giacca ed appoggiandola allo schienale della solita sedia. La stanza viene rischiarata per un istante dalla luce di un fulmine, poi torna nella penombra, finché Teresa preme l'interruttore e il lampadario moderno che pende dal soffitto si illumina. Infine, la psicologa si siede sulla poltrona di fronte a me. «Come stai?»

Alzo le spalle.

«Come hai passato quest'ultima settimana?»

Di nuovo, la mia risposta si limita ad un leggero movimento del corpo.

Teresa si appoggia allo schienale ed incrocia le braccia davanti al petto. Dopo diversi minuti di silenzio - a dire il vero, la stanza è riempita a intervalli regolari dal rumore dei tuoni - riprende a parlare: «Siamo tornate a questo?» chiede, visibilmente irritata. «Io che pongo domande e tu che non rispondi? Siamo davvero tornate a questo dopo settimane di progressi?»

Rimango zitta.

Per qualche altro minuto, il rumore del temporale oltre le mura della clinica è l'unico, all'interno della stanza. La mia psicologa sembra spazientita; sulla sua fronte è apparsa qualche ruga di espressione. Riflette senza parlare, si alza, cammina per una dozzina di secondi, poi si siede di nuovo. «Ho visto che hai trovato una nuova...» Non termina la frase.

Spazientita, decido di farlo io. «Amica?»

Sospira. «Non saprei» dice. «Io avrei detto influenza

«Cosa significa?»

«Significa che, da quando vi siete avvicinate, sei cambiata molto. Credo, quindi, che ciò sia dovuto a lei, almeno in parte.»

«Sono capace di pensare con la mia testa, sai?»

«Però non puoi negare che quello che ho detto sia vero, giusto?»

Non vorrei rispondere. Vorrei davvero rinchiudermi ancora nel silenzio più totale, ma se lo facessi saprebbe di avere ragione. E, di certo, non ho intenzione di dargliela vinta. «Non puoi vietarmi di parlare con un'altra paziente quando, fino a pochi giorni fa, eri tu stessa a spingermi a farlo. Ho seguito il tuo consiglio» dico. «Dovresti esserne felice.»

«Méabh, io sono contenta che tu ti sia finalmente aperta» afferma. «Solo, credo che altre persone avrebbero potuto avere un'influenza migliore su di te. Non penso che lei sia una cattiva persona, sia chiaro; ma ha chiaramente bisogno d'aiuto, esattamente come te» continua. «E non siete in grado, almeno per ora, di aiutarvi a vicenda.»

SPRING - Storia di una ragazza che deve reimparare a vivereDonde viven las historias. Descúbrelo ahora