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Ci ho provato.

Ci ho davvero provato, per un paio di giorni.

Ho ripreso a mangiare - un po' di verdure, qualche boccone di pollo o pesce -, ho cercato di dimenticare la bilancia, che ho nascosto nella grande borsa che aveva preparato mia madre prima che venissi qui, ora riposta nell'armadio, in attesa di poter essere riempita di nuovo in vista del mio ritorno a casa; ho evitato, ogni volta che ho messo piede nella mia camera, di osservare il mio corpo riflesso nelle ante di vetro del guardaroba, ho tentato di collaborare durante le attività, senza mai rispondere in modo arrogante agli altri pazienti o ai medici.

Ho fatto del mio meglio e lo hanno notato: la prima sera in cui ho mangiato - un quarto di porzione di pomodori conditi, tre pezzetti di petto di pollo - sia Emma che Teresa mi hanno presa da parte e mi hanno abbracciata, manifestando la loro gioia per il mio repentino cambiamento. Il giorno seguente, la psicologa, durante la nostra seduta privata, mi ha chiesto spiegazioni, senza realmente aspettarsele: eppure gliele ho fornite, e ho visto la sorpresa dipingersi sul suo viso. Forse ha creduto realmente che le cose potessero cambiare.

Forse, ci ho creduto anche io.

Ma non è durata.

Le cose sono cambiate ieri mattina, dopo la solita visita di Valeria: sono salita in camera per prendere l'accappatoio e il bagnoschiuma, prima di lavarmi. Entrando, sono riuscita ad evitare la mia immagine riflessa sulle ante dell'armadio; mentre uscivo, però, con la coda dell'occhio ho scorto quella figura che sapevo appartenere a me.

Guarda meglio, ha detto la mia Voce.

Non sono riuscita a resistere.

E, mentre voltavo il viso verso l'armadio e lasciavo cadere ai miei piedi asciugamani e bottigliette di plastica, dalla mia testa è scomparsa la sagoma disegnata in rosso che, solo quarantotto ore prima, mi aveva sconvolta tanto da convincermi ad ascoltare le parole di Beatrice, dei medici, della mia famiglia. In un singolo istante siamo tornati ad essere soli: io e le mie convinzioni.

In queste ventiquattro ore ho fatto impazzire ogni singolo medico: la povera Viola, ieri mattina, durante scrittura creativa - "Elenca dieci cose che, durante la tua vita, hai imparato: quali di esse ti rendono fiera? Quali, invece, ti possono essere utili? Quali, invece, ti rendono semplicemente contenta?" era la traccia -, le infermiere che mi hanno accompagnata in bagno, quelle che erano presenti durante i pasti e che mi incitavano a mangiare, e Teresa che, ieri sera, dopo cena, mi ha convocata per una seduta straordinaria e d'urgenza.

«Cosa è successo, Méabh?» ha domandato, visibilmente allarmata. «Eravamo tutti così contenti, così fiduciosi... Ora sembra che questi due giorni non siano mai esistiti.»

Ho alzato le spalle: quel gesto, così familiare, mi ha fatta sentire bene.

«Per favore, parlami» ha implorato. «Sono qui per ascoltarti, per aiutarti; ma devi collaborare anche tu.»

Ho distolto lo sguardo, posandolo su un lampione che illuminava la strada oltre la finestra dello studio.

«Cosa ti ha fatto cambiare idea?» ha insistito.

«Niente» ho replicato. «Semplicemente, non mi andava che vincessi la scommessa.» Mi sono alzata dal divano e sono uscita dalla stanza, senza curarmi della voce di Teresa che pronunciava il mio nome.

Ora mi trovo di nuovo all'interno della stanza, rannicchiata su uno dei cuscini color antracite. La psicologa sta attendendo la mia famiglia nell'atrio; io non avevo voglia di salutarli con un abbraccio forzato, perciò sono venuta qui - e una parte di me spera che non arrivino mai.

Invece sento le loro voci - una falsa allegria tenta di mascherare, invano, l'agitazione - avvicinarsi, e poco dopo la porta di legno si apre. Il primo ad entrare è mio padre, che mi rivolge un cenno vago senza guardarmi negli occhi; mio fratello mi lancia un «ciao» distaccato, come se non fossimo cresciuti insieme - anzi, come se non ci conoscessimo affatto. Mia madre, invece, si ostina a voler cercare un contatto fisico; si avvicina a me e appoggia le sue labbra carnose sulla mia guancia. Le posizioni non cambiano rispetto alle altre volte: è lei a sedersi accanto a me, seguita da mio fratello e, infine, da mio padre che, se potesse, si siederebbe ancora più lontano da sua figlia.

«Bene» dice Teresa, lasciandosi cadere sulla sua abituale poltrona di fronte a noi, «qualcuno di voi ha qualcosa da dire?»

Per poco più di un paio di secondi, la stanza è completamente immersa nel silenzio. Poi, però, parla papà: «Sì» risponde. «Spero che questa volta la seduta sia più produttiva delle altre, perché altrimenti non ho più intenzione di venire.»

La psicologa sospira. «Signor Martelli, lei è tenuto a frequentare ogni sessione. Non è importante se vorrebbe fare altro, se non le piaccio, se non ha voglia di guidare fino a qui: sua figlia ha bisogno di lei, e questa è l'unica circostanza in cui è presente.»

«L'unica?» sbotta lui. «Io sono presente per lei da quando è nata!» grida; mia madre tenta di rimproverarlo, pronuncia il suo nome a denti stretti, ma lui non sente - o non vuole farlo. «Io le ho dato tutto, cara dottoressa: le ho insegnato ad andare in bicicletta, l'ho portata sulle spalle, ho inventato per lei storie su storie, le ho cucinato i suoi piatti preferiti, la ho accompagnata dai suoi amici ogni volta che me l'ha chiesto, a qualsiasi ora! Ho dato a lei e a suo fratello tutte le mie attenzioni, tutto l'amore che avevo; mai» scandisce bene la parola «sono stato assente. Mai» dice. «E, se ora preferisco non vederla, non significa che non la ami più. Sto vedendo mia figlia, la mia primogenita, la mia bambina, morire davanti ai miei occhi e non ce la faccio, non ce la faccio!» La voce gli si spezza e, subito dopo, il suo corpo viene scosso da un singhiozzo, poi un altro, e un altro ancora.

Non ho mai visto mio padre piangere; onestamente, non pensavo nemmeno fosse in grado di farlo. Per me è sempre stato troppo grande, troppo grosso, troppo forte per essere triste; lui era quello che asciugava le mie lacrime, non quello che doveva combattere per trattenere le sue. Ora, con le mani che gli coprono il volto e le spalle che sussultano ad ogni suo singulto, sembra fragile esattamente quanto me, nonostante la sua stazza imponente e il fatto che non farebbe nessuna fatica a prendermi in braccio.

E io sono tremendamente arrabbiata con lui, perché in questi ultimi mesi mi ha fatta sentire abbandonata, perché non mi ha mai chiamata né mandato un singolo messaggio per chiedermi come stessi, perché non ha fatto altro che evitarmi, perché mi ha fatto dimenticare il suono della sua voce, perché ha smesso di sfregare la sua barba ispida contro la mia guancia solo per darmi fastidio, perché non mi abbraccia più, perché ha fatto in modo che il nostro rapporto si dissolvesse come il fumo di una sigaretta nell'aria, ma non riesco a non scoppiare a piangere come una bambina di fronte al suo dolore.

SPRING - Storia di una ragazza che deve reimparare a vivereWhere stories live. Discover now