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Questa mattina, quando mi peso, il numero sullo schermo digitale della bilancia non mi soddisfa affatto. Un tre, un sette, un punto e uno zero risaltano sul grigio del display e rimangono lì per tutto il tempo che trascorro in piedi, con lo sguardo puntato sulle lineette che formano una cifra che non avrei mai più voluto rivedere.

Sono aumentata, e questa consapevolezza mi toglie il respiro.

Ho preso trecento grammi. Li sento addosso, li sento trasformarsi prima in trecento chili, poi in trecento quintali e in trecento tonnellate; ed ora sì che, se potessi scegliere, deciderei di morire: perché questo aumento segna la mia sconfitta, perché fino ad ora ero unicamente scesa e mai salita, perché ho paura che non riuscirò più a diminuire ed ho il terrore di aumentare.

Faccio schifo; e, nell'istante in cui lo penso, la Voce nella mia mente mi dà ragione.

È vero, fai schifo. Fai schifo perché sei ingrassata e si vede, guardali questi trecento grammi: sono nelle tue cosce, nei tuoi fianchi, nelle tue braccia, nella tua pancia, nelle tue braccia. Tocca quell'orribile doppio mento che hai e sentiti disgustata da quello che sei. Fai schifo perché non hai mai avuto il coraggio di ucciderti e, quando hai avuto la possibilità di morire, hai voluto lottare per rimanere in vita. Fai schifo perché hai avuto l'occasione di arrenderti e non l'hai fatto: ed ora hai persino smesso di inseguire l'obiettivo che abbiamo. Guarda quel numero e odiati, perché oggi il tuo peso sarebbe dovuto diminuire di tre etti, e non aumentare. Non dare la colpa al tuo sondino, Méabh; so che stai tentando di giustificarti. Sei stata negligente, hai ridotto i tuoi esercizi, hai accettato che ti nutrissero artificialmente: sei debole, sei stupida, sei tutto quello che non dovresti essere.

Le accuse della mia Voce sono sussurri lontani, ma rimbombano nella mia testa come parole urlate dalla cima di una montagna; le sento echeggiare a lungo. Si affievoliscono solo perché alle mie orecchie giunge un altro suono: qualcuno mi sta chiamando. L'orologio al mio polso, al quale lancio una rapida occhiata mentre afferro la bilancia e la nascondo momentaneamente sotto il letto, segna le otto e diciannove minuti. Mi rivesto velocemente e mi infilo sotto le coperte, grata che Valeria stia impiegando più tempo del previsto.

Il suo viso, incorniciato dal solito caschetto castano, fa capolino dalla porta. «Méabh, forza. Devo verificare i tuoi parametri.»

«Non sto bene» mento. O forse no?

I suoi occhi, dietro a due spesse lenti rotonde, mi osservano a lungo. «Dovrai scendere ugualmente» insiste. «Potrai tornare qui più tardi, al massimo.»

«Non mi sento bene» ripeto. «Vorrei rimanere a letto.»

Lei si avvicina lentamente, mi appoggia il dorso della mano sulla fronte. «Di certo, non hai la febbre. Cosa ti senti?» domanda.

«Mi gira la testa» mento ancora. «E poi, mi fa male.»

Valeria sospira. «Ti gira la testa perché non mangi» dice.

Comprendo che non mi ha creduto, purtroppo, e che non avrebbe senso continuare la mia recita. Sbuffo contrariata e, con diversi calci, spingo le coperte ai piedi del letto. Mi alzo, mi tolgo - di nuovo - il pigiama e mi infilo la vestaglia, poi seguo Valeria al piano inferiore e all'interno dell'unico bagno dotato di bilancia. Lascio che mi provi la febbre e la pressione senza lamentarmi e senza fiatare: ascolto le sue sentenze - non è soddisfatta, come sempre - con lo sguardo perso, e non ribatto. Salgo in silenzio sulla bilancia e non tento di sbirciare il mio peso, a differenza di tutte le altre mattine.

«C'è un leggero miglioramento» dice, poi rimane in silenzio per qualche secondo. Quando parla nuovamente, il tono della sua voce è severo. «Sempre che tu non abbia trovato un altro modo per fingere questo minimo progresso.»

La osservo: i suoi occhi sono pieni di un misto di rabbia e tristezza. Sembra ferita, come se, ingannandola, le avessi fatto del male; come se, per lei, il mio aumento di peso fosse importante. «No» le rispondo, con un filo di voce e le lacrime che minacciano di rigare le mie guance. Afferro la vestaglia, che avevo appoggiato al lavandino, ed infilo le braccia nelle maniche. «Questa volta è vero.» Esco prima che possa dire qualsiasi cosa, prima che possa complimentarsi, prima che possa stringermi, perché non riuscirei a rimanere rigida ed impassibile come ho fatto fino ad ora, e non posso permettermi di mostrarmi debole.

Attendo in camera che l'ora della colazione passi; dopo più di due mesi dal mio arrivo, hanno cessato di obbligarmi ad andare nella sala da pranzo durante i pasti, perché sanno che, in ogni caso, non mangerei. Sanno che mi basta il sondino ed, evidentemente, basta anche a loro, perché non insistono più per convincermi ad ingoiare qualche boccone.

Mi infilo un paio di pantaloni della tuta, una maglietta ed una felpa e, durante i quarantacinque minuti che mancano alla mia ennesima seduta con Teresa, brucio calorie finché non sento i muscoli del mio corpo tremare; poi scendo, percorro il corridoio dell'ala est e mi fermo davanti alla solita porta; sono in anticipo di qualche minuto, e la mia psicologa non è ancora arrivata. Ne approfitto per muovere il mio corpo e bruciare calorie: oggi ne ho più bisogno che mai, vista la sentenza della bilancia. Passeggio avanti e indietro, slancio le braccia verso l'alto, agito persino le dita dei piedi fino a quando sento la sua voce salutare Emma nell'atrio: mi fermo davanti alla porta dello studio e respiro lentamente; il rumore dei suoi passi sul pavimento diventa più intenso mano a mano che si avvicina.

«Ciao, Méabh» dice, quando mi raggiunge. Infila una chiave che tiene già in mano nella toppa e la gira, facendo scattare la serratura. Entriamo; le nostre azioni sono familiari, sempre le stesse: lei si dirige verso le finestre ed apre le imposte, illuminando la stanza, poi si sfila il cappotto e si siede sulla poltrona, io mi rannicchio sul divano antracite.

«Come va?» domanda; ma, a differenza di tutte le altre volte, oggi la risposta non sembra importarle molto. Ed, infatti, il mio silenzio non la turba. «Dobbiamo parlare di alcune cose.»

La osservo disinteressata.

«Non siamo per nulla soddisfatti dei tuoi comportamenti» inizia. «Pensavamo che nasconderci il tuo peso reale fosse la cosa peggiore che potessi fare, ma, evidentemente, ci sbagliavamo.» Il suo tono di voce è grave. «Siamo stati informati di quello che hai detto durante la terapia di gruppo e l'ultima sessione di scrittura creativa.»

Continuo a fissarla, ma a lei non sembra importare.

«Innanzitutto, non hai nessun diritto di rivolgerti in modo così arrogante ad un medico. La nostra relazione, qui, si basa sul reciproco rispetto: e, dal momento in cui ho avuto la possibilità di conoscere i tuoi genitori, sono certa che ti abbiano donato un'ottima educazione. Mi aspetto che continui ad usarla: la tua condizione non è, e non deve essere, una scusa per poterti comportare in questo modo» dice. Poi, siccome non le do alcuna risposta, domanda: «Chiaro?»

«Mh-mh.»

«In ogni caso, ciò che più ci ha delusi è stato quello che hai detto ad Ambra» dice. «Da te non me lo aspettavo, Méabh. Proprio tu l'hai accusata di...»

«Era la verità» taglio corto.

«Non mi interessa!» tuona, facendomi sussultare. Poi, con un tono ugualmente aggressivo ma più basso, aggiunge: «Se anche fosse stata la verità, non ti saresti dovuta nemmeno azzardare. Nessuno viene a rinfacciarti l'anoressia, e tu... tu, come puoi averle detto quelle cose? Proprio tu, che sai quanto possano fare male le voci che si hanno nella mente! Proprio tu, che sai quanto possano essere alimentate dalle parole delle persone!»

Ha ragione, lo so. Ed è questo che vorrei dirle: che ho cose più importanti a cui pensare, che sono un disgustoso ammasso di grasso, che mi viene da vomitare, che non riesco a distrarmi dal numero scritto su quello schermo grigio, che considero la bilancia la mia migliore amica da tre anni, ma che stamattina sono state proprio lei e la sua oggettività a ferirmi così profondamente, che non mi interessa di quello che ho detto ai dottori o ai miei compagni, perché ora mi sento morire e vorrei davvero addormentarmi e non svegliarmi mai più, che ha già perso la scommessa che abbiamo fatto, perché sono passati già due mesi ed io non ho intenzione di masticare nulla, che non merito niente, non merito una famiglia, non merito cure, non merito amici, non merito cibo, che vorrei gridare per sovrastare la mia Voce e, invece, devo rimanere in silenzio e sopportare.

Spero solo di non doverlo fare ancora a lungo.

SPRING - Storia di una ragazza che deve reimparare a vivereDove le storie prendono vita. Scoprilo ora