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«Buongiorno, signori Martelli.» Teresa accoglie i miei genitori con una stretta di mano formale, come ogni sabato mattina. Loro ricambiano il saluto accennando un sorriso educato; il loro viso, però, torna presto cupo. Sembra che, invece di vedere la loro primogenita dopo un'intera settimana, siano stati costretti ad assistere al sacrificio di una persona. È insopportabile.

Non riescono nemmeno a guardarmi negli occhi mentre mi salutano. La loro attenzione è rivolta ad un punto dietro di me, ma quando mi volto e cerco di capire cosa stiano osservando non c'è assolutamente nulla. La parete è bianca, immacolata, perfetta.

Non sono più parte della famiglia. Per loro, è come se fossi solo una lontana parente in fin di vita che sono obbligati a visitare un'ultima volta; non è un piacere trascorrere qualche tempo con me, è un flagello, una tortura, un'imposizione. Leggo sulle loro facce che vorrebbero essere a casa, davanti al camino in salotto, a leggere i loro libri con in mano una tazza di cioccolata calda o di tè; vorrebbero essere al centro commerciale, a comprare quella camicia che tengono d'occhio da settimane; vorrebbero essere in macchina, diretti verso qualche luogo diverso da quelli che vedono ogni giorno; vorrebbero essere ovunque, ma, di certo, non qui.

È a questo che penso, mentre entriamo nel solito ambulatorio e prendiamo posto sulle solite poltrone. Mi rannicchio sulla mia, cercando di rendermi quanto più piccola possibile; gli altri membri della mia famiglia, invece, sono seduti in modo composto, ognuno con le mani sulle proprie ginocchia, la schiena rigida, la testa alta. Riesco a sentire i pensieri di mio padre: vorrebbe alzarsi e raggiungermi, vorrebbe impormi di assumere la posizione che hanno la mamma e Conor, la posizione da ragazza educata quale sono. Ma non ha il coraggio di farlo; sa bene che darmi ordini significa guardarmi, incatenare il suo sguardo al mio, parlarmi con un tono di voce fermo. E, ormai, nessuna di queste capacità gli appartiene più.

«Allora» esordisce Teresa, sfoggiando un sorriso ampio ed innaturale. «Chi vuole iniziare?»

Nessuno risponde, ovviamente.

La psicologa sospira. «Méabh, perché non racconti alla tua famiglia di questa settimana?»

«Perché non mi va?» propongo.

«Per favore» insiste Teresa. «Racconta loro della tua nuova amicizia.»

La fulmino con lo sguardo, ma non provoco in lei nessuna reazione. «Si chiama Vittoria. Non mi crede pazza, è bella, è intelligente, è divertente...»

«Nessuno, qui, ti crede pazza» interviene la psicologa. «L'anoressia è una malattia che parte dalla psiche, ma questo non ti rende assolutamente folle» dice. «Vai avanti.»

«Non ho altro da dire.»

«È per caso quella... quella con il caschetto nero?» chiede, mormorando, la mamma.

Teresa annuisce lentamente. «Sì, è lei.»

Mia madre si porta una mano alla bocca, coprendola; ma il suo gemito si sente ugualmente. «No!» grida. «Non voglio che vi frequentiate!» La sua voce trema; la sua posizione sulla poltrona non è più composta come poco fa.

Mio fratello allunga il braccio verso di lei e le cinge la schiena. «Mamma» la chiama, «mamma, calmati.»

«Signora Martelli, ho già provato a spiegare a Méabh che la sua amicizia con Vittoria non sia il meglio, per la sua guarigione» interviene ancora Teresa. «Purtroppo, sua figlia è molto determinata...»

«Obbligatela!» grida mia madre. «Rinchiudetele in due stanze diverse! Non deve nemmeno vedere quella ragazza!»

Papà si alza e la raggiunge; si china davanti a lei. «Ciara» le prende il viso tra le mani, «per favore, smetti di urlare. Sai che non è possibile soddisfare le tue richieste» dice, dolcemente. «Sono irrazionali. Questa è una clinica che prevede attività e pasti di gruppo; una ragazza non può essere esclusa, altrimenti il suo ricovero non le sarebbe d'aiuto.»

«Simone, tu non l'hai vista» obietta la mamma, con il volto rigato dalle lacrime. «Quella ragazza è una morta che cammina, è pelle e ossa, non ha carne, non ha niente, ha solo...»

Mio padre estrae da una tasca un pacchetto di fazzoletti e, con uno di essi, le asciuga una guancia e gliela accarezza con una tenerezza che non credevo potesse appartenergli. «Tesoro, purtroppo vedo lo stesso corpo che hai descritto ogni volta che guardo nostra figlia.» Abbassa lo sguardo.

«Magari» commento.

Quattro paia di occhi si posano su di me. «Cosa hai detto?» chiede papà.

«Ah bene, ecco cosa ci vuole per fare in modo che mi guardi.»

«Méabh» interviene Teresa, «cosa significa "magari"

Alzo le spalle. «Significa esattamente ciò che ho tetto. Magari avessi quel corpo.»

«Tu... tu ce l'hai» balbetta Conor, osservandomi sconcertato. Cammina verso di me, si siede sul bracciolo sinistro della mia poltrona, mi pizzica il braccio. «Vedi?» dice. «Tutta questa è pelle. Il tuo corpo non è composto da nulla, se non questa!»

«Mi stai facendo male» gli dico, massaggiando il punto in cui le sue dita mi hanno stretta. «Credimi, se fossi come Vittoria lo saprei.»

Teresa si appoggia allo schienale, sospirando. «Purtroppo, Méabh, questo non è vero» ribatte. «Tu e Vittoria siete spaventosamente magre allo stesso modo. È per questo che i tuoi genitori non vogliono che la frequenti; temono che per te sia un modello.»

«Lo è, infatti.»

Mia madre si lascia sfuggire un altro gemito; papà la stringe a sé.

«Il problema è che voi due siete già allo stesso livello, purtroppo. Non hai bisogno di non mangiare per arrivare ad eguagliarla, siete già uguali.»

Non riesco a trattenere una risata ironica. «Per favore» dico. «Ho ancora così tanta strada da fare per...»

«Méabh, tu e Vittoria avete lo stesso, identico indice di massa corporea.»

«Smettila di dirmi bugie!»

Teresa si alza dalla poltrona; le gambe di essa che sfregano contro il pavimento producono un rumore stridulo e fastidioso, ma la psicologa non si scusa. Invece, apre la porta ed esce dalla stanza, lasciando me e la mia famiglia perplessi. Durante la sua assenza, la mamma singhiozza, e papà e Conor cercando di tranquillizzarla senza successo. Ovviamente, nessuno si preoccupa di chiedere come stia io.

Qualche minuto più tardi sentiamo i passi di Teresa risuonare lungo il corridoio; entra poco dopo, con dei fogli in mano. «Non dovrei farlo» premette, «perché i dati di ogni paziente sono privati, ma purtroppo mi vedo costretta.» Me li porge; i due documenti recano, in alto, il logo ed il nome della clinica, esattamente come quelli che Teresa lasciava alla mamma alla fine di ogni visita di controllo, prima del ricovero. Sono persino firmati da Emma, in basso a destra. In uno ci sono scritti il mio nome, la mia altezza, il mio peso - 37,1 -, il mio indice di massa corporea, i valori della mia pressione, la temperatura del mio corpo, e un commento sul mio caso - c'è proprio scritto così, caso. Nell'altro foglio, invece, sono stampati il nome completo di Vittoria, la sua altezza, il suo peso, il suo indice di massa corporea, i valori della sua pressione, la temperatura del suo corpo; gli ultimi due numeri non mi interessano, potrebbero persino evitare di verificarli. Osservo tutti gli altri, però; li confronto, li guardo, li comparo, li controllo, li fisso, li controllo ancora.

Coincidono.

«Ora ci credi?»

SPRING - Storia di una ragazza che deve reimparare a vivereWhere stories live. Discover now