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«Méabh, mi stai ascoltando?»

Giro bruscamente il viso verso di lei: Beatrice allontana la sigaretta dalle labbra e, per una manciata di secondi, una nuvola di fumo le nasconde il volto.

Siamo in giardino, di nuovo - ero qui quando lei è arrivata, poco più di un'ora fa. Il cielo minaccia pioggia da questa mattina, ma per il momento non è ancora caduta alcuna goccia. La temperatura, tuttavia, supera di poco lo zero, e sopra la felpa indosso il cappotto ed anche la sua sciarpa. È stata Beatrice ad insistere perché mi coprissi: sostiene che, se continuo a passare ore all'aperto senza nulla addosso - «specialmente nelle tue condizioni,» ha aggiunto, come se fossi una donna incinta - presto sarò costretta a rimanere a letto tutto il giorno, perché mi ammalerò. Così, dal momento in cui ogni stanza della clinica, che sia ampia o meno, mi fa sentire oppressa, mi sono arresa, e ho lasciato che andasse in camera mia a recuperare la sciarpa.

Tutto quello che ho addosso, però, non basta a scaldarmi: le mie mani e i miei piedi sono intorpiditi dal freddo, e devo impegnarmi per non tremare o battere i denti perché so che, se Beatrice lo notasse - e sono certa che lo noterebbe -, mi trascinerebbe dentro.

«Sì» mento. «Sì, ti sto ascoltando.» In realtà ogni mio pensiero è occupato dalla sagoma rossa tracciata da Laura che simboleggiava il mio corpo: l'immagine del contorno di quel corpo sdraiato mi ricorda una di quelle scene dei film in cui la polizia disegna con un gesso il punto e la posizione esatta in cui è stato trovato il cadavere. Non riesco a togliermi dalla mente la linea rossa che delineava il mio.

«Cosa ho appena detto, allora?» domanda, leggermente irritata.

Non so rispondere, ovviamente.

Sospira. «Come va?» domanda, poi avvicina di nuovo la sigaretta alle labbra.

Come faccio sempre, alzo le spalle. «Normale.»

Lei scuote la testa. «No» dice, «seriamente. Non sono uno dei tuoi psicologi, dimmi la verità.»

«Normale» ripeto.

«Avanti» insiste. «Hai la testa da un'altra parte; lo vedo. Cosa succede?»

«Nulla» replico, «sono un po' stanca.»

Rimane in silenzio per qualche istante, poi ci riprova: «Il peso?» domanda.

«Aumenta.»

«E non ne sei felice, immagino.»

«Non penso sia una novità.» In realtà, non so nemmeno io che effetto mi faccia.

Sospira, finisce la sigaretta e la spegne sull'erba; poi appoggia il mozzicone di fianco a sé, sulla panchina, insieme agli altri due. «Puoi dirmi perché hai iniziato?»

La sua domanda mi coglie di sorpresa: pensavo che mi avrebbe chiesto ancora qualcosa sul mio stato d'animo; pensavo che mi avrebbe chiesto tutto, tranne questo. «Non c'è un vero motivo» rispondo, come avevo detto durante la prima sessione di terapia di gruppo.

«Qualcuno ti ha insultata?» insiste.

Scuoto la testa.

«Picchiata? Molestata?»

«No.»

«Cos'è successo, allora?»

Alzo le spalle. «Un giorno mi volevo bene; quello seguente, no.»

Beatrice rimane in silenzio per diverso tempo; infine, dice: «Non capisco.»

«Cosa?» chiedo.

«Non riesco a capire come una persona possa arrivare ad odiarsi tanto da uccidersi in modo così lento e doloroso» spiega. «Non riesco a capire come una persona possa arrivare ad odiarsi e basta, ad essere sincera. Il mondo è pieno di persone che vogliono ferirti o abbatterti: perché dovresti essere tu stessa una di loro? Per quale motivo hai deciso di diventare la tua peggior nemica, Méabh?»

Vorrei risponderle che non ho deciso: è successo e basta, gradualmente, senza che me ne accorgessi e, soprattutto, senza un vero motivo. Vorrei dirle che mi sento incredibilmente stupida ed egoista, a volte, perché la maggior parte degli altri ragazzi aveva una ragione più valida per voler smettere di mangiare - troppe offese, la perdita di un genitore, molte violenze, difficoltà ad integrarsi - mentre a me è bastato uno stupido ragazzo per ritrovarmi fra loro. Vorrei urlarle che, all'interno di quella clinica che dista poche decine di metri da dove ci troviamo, disprezzo tutti; ma, in realtà, sono loro che dovrebbero disprezzare me, perché non sono autorizzata a volermi annullare, perché non ho alcun motivo per desiderare la morte. Vorrei parlarle - davvero, questa volta -, invece scoppio in un pianto disperato, come sempre, quando sono sopraffatta dalle emozioni.

Perché, negli ultimi tempi, sono spesso certa di non provare più niente: ed, invece, a quanto pare, all'interno questo corpo osceno e disgustoso esiste ancora una remota forma di vita che accumula il dolore - che mi procuro io e che mi procurano gli altri - in una sorta di fiume i cui argini, di tanto in tanto, cedono.

Beatrice mi stringe, lascia che i miei singhiozzi si succedano senza tentare di farsi spiegare il motivo di questo improvviso sfogo, rimane in silenzio e appoggia le mani sulla mia schiena.

«Scusa» dico quando, finalmente, riesco a tranquillizzarmi.

Lei si allontana piano da me, mi guarda con i suoi occhi dal colore glaciale. «Non fa niente» dice. «Vuoi dirmi cosa succede, ora?»

Le racconto della terapia di gruppo, della sagoma disegnata da me in nero e di quella realizzata dalla psicologa in rosso, di come fosse piccola quella forma, di come mi sembri impossibile che quel corpo minuscolo contenga tutto quello che sono io. Le racconto di quanto mi sento arrabbiata ma di come io non riesca ad identificare il destinatario della mia ira, le dico che mi disgusta masticare, ma che il dolore che provo ai denti mi sta uccidendo, che mi manca il cibo vero, ma che penso che non sarò mai più capace di mangiarlo, le spiego che, ormai, sono un corpo di vetro - lei cerca di correggermi: «di cristallo» dice, ma io ribatto che il cristallo è troppo prezioso per essere paragonato a me - pieno di paura.

«Hai bisogno di guarire, Méabh. Te ne rendi conto, adesso?»

Non le rispondo: una parte di me se ne rende conto, in effetti.

Ma ne esiste un'altra, più grande.

Che, invece, non se ne rende conto affatto.

SPRING - Storia di una ragazza che deve reimparare a vivereМесто, где живут истории. Откройте их для себя