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La dottoressa Laura Gabusi è già all'interno della stanza quando entro. Oggi i divanetti sono stati tutti ammucchiati contro le pareti; qualcuno dei miei compagni è seduto su essi, altri attendono in piedi l'inizio della terapia di gruppo - l'attività più inutile che potessero proporre, per quanto mi riguarda. Il pavimento dell'aula è quasi completamente coperto da enormi fogli di carta sui quali sono appoggiati dei pennarelli scuri: mi basta questo per capire che, anche oggi, non mi divertirò affatto.

L'ultima ad entrare è Ambra, che mi passa accanto senza rivolgermi lo sguardo. Inizialmente ipotizzo che sia arrabbiata col mondo intero, stamattina - d'altronde, io stessa lo sono frequentemente. Invece, non appena mi supera, un ampio sorriso si apre sul suo volto: si dirige verso i miei compagni e li saluta allegramente, riservando persino a qualcuna delle ragazza un leggero bacio sulla guancia. È allora che mi ricordo del Giorno del Ringraziamento e di averla accusata di non avere abbastanza forza di volontà da smettere di mangiare: mi rendo conto solo ora di aver sbagliato e vorrei scusarmi ma, proprio mentre muovo un passo verso di lei, Laura dà inizio alla sessione: «Buongiorno, ragazzi» dice, riservando ad ognuno di noi un'occhiata lunga un paio di secondi; quando arriva a me, la sua espressione allegra vacilla leggermente. «Oggi ognuno di voi disegnerà su questi fogli, a turno, quello che crede possa essere il contorno del proprio corpo. Poi si posizionerà al centro della figura ed io, con un pennarello rosso, traccerò la sua reale sagoma» spiega. «Si alzerà, la osserverà e ci renderà partecipi delle sue riflessioni» continua. «Siate onesti, ragazzi. Nessuno, qui, può permettersi di giudicarvi» conclude; tutti i presenti mi osservano, consapevoli che l'ultima frase sia rivolta a me.

Anaya si offre volontaria. Impugna con la mano sinistra il pennarello nero e disegna con cura, immersa nel silenzio, la sua figura. Impiega poco più di un minuto a completare il lavoro; poi, come ha chiesto la psicologa, si posiziona al centro della sagoma ed attende che Laura tracci l'effettivo contorno del suo corpo. Quando finisce, ed Anaya si alza con un movimento incredibilmente atletico, osservo i due disegni: la figura rossa è solo appena più piccola di quella nera, ed io sono sempre più convinta che questa attività non serva a nulla.

«Bene, Anaya,» annuisce Laura. «Quali sono i tuoi pensieri a riguardo?»

La ragazza non esita nemmeno per un secondo: la sua risposta è spontanea, naturale. «Sono felice» dice, e dal suo tono di voce si capisce che non sta mentendo. «Anche se continuo a vedermi un po' più... ingombrante di quello che sono» continua, ridacchiando, «mi viene in mente l'ultima volta che abbiamo fatto questa stessa attività ed è impossibile, per me, non notare il miglioramento. Sono felice, perché sto iniziando a vedermi con gli occhi di una vera persona, e non con quelli di una ragazza malata.»

«Hai fatto enormi progressi in questi ultimi due mesi» concorda la psicologa. Poi si rivolge al resto dei ragazzi: «E questo dimostra che, nonostante possiate avere l'impressione che le cose non cambino mai, in sole otto settimane potreste diventare un'altra persona.» Strizza l'occhio a Anaya, che ricambia con un sorriso.

A lei seguono Davide, Cristina e Vanessa, ma non riesco a seguire i loro contorni, né le parole che hanno da dire a riguardo. Seduta su un divanetto vuoto - nessuno di loro vuole sedersi vicino a me -, il mio sguardo e, con esso, anche la mia attenzione, sono rivolti alla pioggia che cade tristemente oltre la finestra. Il sole, ormai, non si vede da giorni - l'ultimo accenno è stato venerdì, il giorno prima della terapia familiare. Le gocce sbattono sul vetro spesso e ghiacciato, annunciando definitivamente la fine della bella stagione che, quest'anno, ha avuto una durata più lunga del solito; le osservo rincorrersi e congiungersi, separarsi, per poi rincorrersi di nuovo.

«Méabh?» mi chiama Laura, distogliendo la mia attenzione dalla pioggia.

«Sì?»

«Vieni» dice, «è il tuo turno.»

Mi alzo dal divano, terribilmente scettica. Come Anaya, afferro il pennarello con la mano sinistra e mi chino sul foglio, iniziando a tracciare la sagoma del mio corpo. Lo faccio lentamente, con cura, fermandomi ad osservare il mio lavoro per essere certa che sia l'esatta riproduzione del mio pensiero; poi, come hanno già fatto gli altri prima di me, mi sdraio supina al centro della figura, con le braccia leggermente divaricate. Sento la psicologa inginocchiarsi accanto a me e rimuovere con un gesto secco il cappuccio dal pennarello; subito dopo comincia a disegnare il contorno del mio corpo.

Mentre mi alzo, la mia mente è occupata da una sola frase: Ti prego, fa' che sia solo leggermente più grande di come mi vedo.

Quando mi volto verso l'ampio foglio, però, rimango sorpresa: la figura tracciata da Laura è molto, molto più piccola di quella che ho realizzato io. Un terzo, forse. E non possono appartenere davvero a me quelle cosce con il diametro di una grossa mela, né quelle braccia non più grandi di una pallina da golf. Questo corpo è minuscolo: come può essere il mio?

«Cosa pensi, Méabh?» domanda la psicologa in modo pacato.

«Io...» provo a dire, ma la frase muore in qualche punto remoto del mio cervello. «Sei sicura di non esserti sbagliata?» mormoro, nonostante conosca la risposta: ho sentito la plastica fredda del pennarello premere contro il mio busto, le mie gambe, le mie mani.

Annuisce. «Sicurissima» conferma, «ho tracciato il tuo contorno perfettamente.»

Osservo di nuovo quella fragile figura contenuta all'interno di quella nera, nettamente più grande. «Quella sono io» dico, con un filo di voce.

«Sì; quella sei tu.»

Mi dirigo lentamente verso il divano di fianco alla finestra mentre Laura chiama Marta. Ora mi è completamente impossibile concentrarmi sui disegni degli altri: i miei occhi sono fissi su quella sottile sagoma disegnata in rosso.

Quella sono io, penso ancora.

E, allora, forse hanno davvero ragione mio fratello, i miei genitori, Teresa, i medici dell'ospedale: forse peso davvero troppo poco. Perché, d'altronde, è inutile negarlo: quel corpo, quello che pare sia il mio corpo, ha tutta l'aria di essere estremamente deperito.

Sono ancora tremendamente scossa quando Alessia termina l'attività e Laura ci congeda, dandoci appuntamento alla prossima settimana per l'ultimo incontro prima della pausa.

Mentre esco - questa volta, a differenza delle altre, non sono la prima a lasciare l'aula - mi rendo conto che in effetti, quello che ho pensato un paio d'ore fa, entrando nell'aula, fosse azzeccato: non mi sono divertita.

Non mi sono divertita, ma la terapia di gruppo, questa volta, non è stata una perdita di tempo.

SPRING - Storia di una ragazza che deve reimparare a vivereDove le storie prendono vita. Scoprilo ora