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«Ti prego!» ripeto per l'ennesima volta.

È un primo pomeriggio di fine settembre; il sole splende oltre le finestre chiuse della mia stanza, ma le calde temperature estive sono già solo un ricordo. Beatrice è arrivata appena mezz'ora fa e, da allora, non ho fatto altro che implorare di portarmi una bilancia - di nascosto, ovviamente. Seduta a gambe incrociate sul letto disfatto, esattamente di fronte a me, la mia amica scuote la testa. «No, Méabh» dice; il suo tono è fermo. «I medici ti pesano quasi tutti i giorni.»

Sbuffo. «Però non mi comunicano il numero che appare.»

«Non pensi che sia giusto così? Non porterebbe nulla di positivo.»

«Per favore, Beatrice» insisto. «Lo giuro, non ti chiederò mai nient'altro.»

«Non è questo il punto» ribatte. «Puoi chiedermi qualsiasi cosa, ma non questa. È contro le regole e, per di più, andrebbe unicamente a vantaggio della malattia. Non tuo, non mio, non dei medici.»

«Ti prego!» ripeto ancora.

«Perché vuoi farti del male?»

«Voglio solo conoscere il mio peso.»

«E poi?» domanda spazientita. «Quando lo saprai, cosa pensi di fare con quel numero?»

«Nulla» replico semplicemente. «Ma devo sapere quanti chili di troppo ho addosso.»

Sospira, si alza, inizia a camminare nervosamente per la stanza. Riflette, si chiede se soddisfare o meno la mia richiesta, discute con la sua coscienza. Infine emette la sua scelta: «Non posso, Méabh, mi dispiace.»

Sospiro rumorosamente per comunicarle il mio disappunto.

Lei non capisce.

Non capisce che mi sento impazzire, non capisce che ho bisogno di appoggiarmi alla valutazione oggettiva di uno strumento, non capisce che necessito di sapere che almeno parte del grasso che mi sento addosso sia dato da un fattore psicologico, non capisce che non essere in grado di contare le calorie che sono costretta ad assumere sia una tortura, per me.

Lei non capisce, ma io devo farle cambiare idea.

E decido di cambiare tecnica.

«Va bene, scusami» dico. «Come sta tua mamma?» Tento con tutta me stessa di sembrare autentica, sinceramente interessata, vera. Una parte di me viene immediatamente travolta dai sensi di colpa, perché sono consapevole del fatto che stia colpendo nel suo punto più debole; un'altra, la più forte, mi accarezza, mi tranquillizza, mi calma sussurrandomi dolcemente che sto facendo la cosa giusta, che non ho altra scelta, perché devo convincerla, e renderla vulnerabile è l'unico modo per farlo.

Beatrice si ferma improvvisamente e si volta verso di me, sorpresa. «Davvero? Non insisti più?»

«No. Hai ragione a non volere. Sono stata insistente ed egoista; mi dispiace» mento.

Aggrotta le sopracciglia poco convinta, poi cede e mi raggiunge, accomodandosi di nuovo accanto a me. «Sta... non saprei» dice. I suoi occhi ghiacciati fissano un punto indefinito della natura che si estende oltre la finestra. «Un momento sembra stare abbastanza bene, quello successivo bisogna richiedere una sedia a rotelle perché è talmente debole da non riuscire a muovere i passi che la separano dal bagno all'interno della sua camera al letto» si confida. «È dura, Méabh. Sai - vivere in una menzogna. Lei finge di stare bene, noi fingiamo che stia bene, fingiamo di essere allegri, di essere positivi, di essere felici. E poi...» Non termina la frase; il silenzio che riempie la stanza è un macigno. Beatrice abbassa lo sguardo, respira profondamente più volte, afferra il suo zaino e ne estrae una bottiglietta piena d'acqua; beve a piccoli sorsi poi, quando ha finito, la ripone e torna a fissare il paesaggio che circonda la struttura.

«E poi?» la incalzo.

Sospira. «E poi ognuno di noi si dispera in camera propria, cercando di non farsi sentire dagli altri.»

«Mi dispiace» mormoro. «Non so come riusciate ad essere così forti.»

«È l'unico modo per tentare di superare ciò che stiamo passando» dice. «Anche se è difficile. Mia madre era... è» si corregge, «il mio punto di riferimento. Ho trascorso quasi ventuno anni della mia vita rivolgendomi a lei per qualunque cosa; mi ha sempre dato ottimi consigli, mi ha insegnato determinati valori, mi ha aiutata a risolvere problemi. Lei sapeva sempre come fare. E ora il nostro tempo sta scadendo, e sento di doverle ancora chiedere spiegazioni sulla vita, sul mondo, sulle persone... Ma, quando sono con lei, la mia mente si svuota. È frustrante.»

Annuisco senza dire nulla; lei continua: «Ho paura che ogni cosa cambi dal momento in cui morirà. Ho paura che, non avendo più nessuno con cui mostrarci forti, tutti crolleremo; ho paura che nessuno di noi avrà più voglia di festeggiare i compleanni, il Natale; ho paura che non avremo più nulla da dirci, che a tenere unita la mia famiglia sia lei e che, quando non ci sarà più, il vincolo che ora sentiamo sparisca; ho paura di rimanere sola, di sentirmi persa, di non potermi più rivolgere a nessuno, di non riuscire a...» La sua voce si spezza e, per una decina di secondi, l'unico rumore all'interno della stanza sono i suoi singhiozzi. Poi, mentre tira su col naso, si asciuga le lacrime con il dorso della mano. «... ad andare avanti con la mia vita» conclude.

La mia Voce grida quanto io sia spregevole, miserabile, disgustosa: lei sta perdendo la madre ed io la sfrutto per arrivare al mio scopo. Ed, improvvisamente, mi è chiaro: avevo ragione io, non avrei dovuto lasciare che si avvicinasse.

Avevo ragione io, non posso fare altro che deluderla.

Avevo ragione io, merito di rimanere sola.

E, mentre i sensi di colpa mi schiacciano, mi avvicino silenziosamente a lei e la stringo; rimaniamo abbracciate a lungo senza dire nulla, ed io spero che lei capisca che le voglio bene, che mi dispiace, che merita molto più di tutto ciò che le sta accadendo, che le sono vicina.

«Devo andare» mormora, dopo quelle che sembrano ore. Mi allontano lentamente da lei, che si alza e si infila il parka e le scarpe; la osservo afferrare lo zaino e metterselo sulla spalla poi, quando si dirige verso la porta, la raggiungo. In silenzio, camminiamo lungo il corridoio e scendiamo la scalinata; lei rallenta il passo per starmi accanto, io accelero per non farla spazientire.

Emma è, come al solito, dietro al bancone; alza lo sguardo e ci saluta brevemente non appena entriamo nell'atrio, infine torna a dedicare la sua attenzione unicamente allo schermo del computer posizionato di fronte al suo viso.

«Allora ciao» dice Beatrice. «Ci vediamo presto.»

Sorrido. «Ciao.»

Lei fa per aprire la porta, ma io la stringo nuovamente in un abbraccio; avvicino la bocca al suo orecchio sinistro e mormoro: «Ti prego, per favore, me la porti?» Non c'è bisogno che le spieghi a cosa mi riferisco: lo sa perfettamente.

Lei annuisce quasi impercettibilmente, poi si allontana da me e scompare oltre il legno pesante.

SPRING - Storia di una ragazza che deve reimparare a vivereDove le storie prendono vita. Scoprilo ora