•Capitolo XXIX

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Il ticchettio dell'orologio diviene sempre più nitido e laconico, sempre più assordante. La lancetta dei minuti raggiunge quella delle ore e le campane iniziano il loro concerto.

Sebbene mi sia sempre piaciuto ascoltare la loro armoniosa sinfonia, questa volta stringo la matita che ho in mano e la getto contro il vetro della finestra, liberandomi in un urlo frustrato.

― Principessa, non fate così... ― Una delle mie cameriere mi fissa amareggiata. Ma dai, parla anche. E io che credevo che fosse muta.

― Stai zitta! ― riprendo, ancora più feroce. ― Tutti fuori, adesso!

Le mie serve sfilano di fronte al mio sguardo in una marcia che dovrebbe sembrare addolorata, ma perfino i miei teneri occhi riescono a intravedere sotto il velo di ipocrisia che copre i loro gesti: tutte sono infastidite e preferirebbero servire persino una semplice nobile che una Principessa sbraitante e irritabile come me.

Dopo un mese, papà ha appena dato l'ordine di interrompere le ricerche per trovare la mamma. Si è arreso.

Mi domando se abbia senso continuare a sperare nel suo ritorno. Probabilmente no.

Chino il viso e scoppio a piangere.

*  *  *

Il mio sguardo è spento, fisso di fronte a me. Tutti i superstiti della strage sono stati accolti a palazzo per prestare loro ogni tipo di assistenza, sia medica che psicologica: i feriti più gravi sono già in infermeria, così come quelli in piena crisi di panico.

Sono seduta accanto a Thomas nel corridoio accanto all'infermeria, su sedie appostate frettolosamente per ospitare trenta maghi che attendono di fare il loro ingresso nell'infermeria reale. Alya non è con noi, poiché ha preferito andare con Eric. La sua motivazione, tuttavia, era un'altra: dopo essere usciti dall'enorme sala da ballo, ha dichiarato di non poter più venire a Relicanth finché le acque non si fossero calmate. Ho annuito e ho smaterializzato me e Thomas a palazzo.

Appoggio la testa sulla sua spalla e lui fa lo stesso.

Ha un che di buffo, questa situazione: sono morte centinaia di persone, ma i miei pensieri non riescono a discostarsi dal fulcro che li accomuna: non sono riuscita a prendere in mano gli eventi, che si sono rivoltati contro di me. Non ho agito, non ho fatto niente, sono rimasta a fissare il tutto.

Quanto sono egoista.

― Non ti preoccupare, tesoro, la mamma sarà guarita in un batter d'occhio ― Di fronte a noi, il padre di Thomas dà una pacca sulla spalla al suo figlio minore.

Suo padre è sempre stato una persona meravigliosa: mi ricordo quando, da bambina, ero spesso invitata per il tè nella loro magione; allora s'intratteneva con donne e bambini e ci raccontava ogni volta un'impresa diversa che aveva compiuto da giovane sul campo di battaglia, o le scoperte sensazionali dei suoi interminabili viaggi in ogni angolo del reame, come le Cascate Inverse a nord di Rubium, o le piantagioni di limoni all'estremo sud. Mentre il piccolo Thomas sbatteva la testa sul tavolino, stanco di quegli interminabili discorsi, io lo ascoltavo affascinata. Era sempre così gentile.

― Lo so, padre, non c'è bisogno che tu me lo dica. Si è solo rotta un braccio, non è la fine del mondo ― sbuffa il bambino, incrociando le braccia annoiato.

― Giusto, dimenticavo. Mi chiedo se tu provi qualche emozione ― bofonchia.

Contrae il viso in una smorfia impensierita, facendo vagare in grandi occhi ambrati lungo il corridoio. ― Dovrei sentirmi offeso, ma non ci riesco ― Alza le spalle. ― Il che teoricamente conferma la tua ipotesi.

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