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- Non si grida nei cimiteri - disse Ulisse noncurante del tono grave - Tuo padre non te lo ha insegnato? Avanzava sempre di più, lanciando fendenti a vuoto nell'aria.

Alessandro continuò invece ad indietreggiare finché la sua schiena urtò contro un cancelletto che separava quella zona da un'altra area. Allertato alzò lo sguardo, tastando freneticamente in cerca della sua maniglia, ma una volta trovata questa non si mosse: era chiusa a chiave. Alessandro era in trappola, come un cucciolo di gatto in un vicolo cieco braccato da cani massicci e rabbiosi.

A proposito di rabbia, Ulisse ogni tanto perdeva un po' di bava dalla bocca ghignante, che cadeva sul marmo sotto forma di rumorose gocce vischiose. Un paio di volte era capitato che quelle sfere maleodoranti venissero tagliate nettamente in due parti uguali dalle sferzate di quella lama lucidata a dovere.

Alessandro accennò a qualcosa che sembrava vagamente un tentativo: provò ad alzarsi. Ma i madidi palmi delle sue mani scivolarono sul pavimento lucido, facendolo slittare battendo con la schiena e la testa al cancelletto dietro di lui.

Ulisse si mise a ridere, mentre la vista del giovane sembrava una giostra pericolosamente impazzita.

- Aaaah... - lamentò Alessandro, portandosi una mano alla nuca ed allargando le spalle all'esterno fino a spezzarsele quasi, per il dolore.

- Il caldo ed il sudore giocano brutti scherzi, vero ragazzo? - rise - È un po' come prima dell'esame finale di maturità di uno studente delle superiori, come quello finale per un laureando o come le analisi del sangue per un tossicodipendente riuscito a celare ad occhi indiscreti i suoi vizi fino a quel momento. Come i genitori poco prima della nascita della propria prole. Potrei elencarti un oceano di esempi del genere, ma sintetizzerò il tutto fornendoti l'elemento chiave che li accomuna tutti: l'attesa. -

Ulisse Barca si era fermato, fissando Alessandro con la perplessità con cui un insegnante cerca le parole più adatte per far comprendere al suo studente la lezione del giorno.

- Anche noi siamo in attesa in questo momento. Tu potresti essere lo studente pre esame impreparato ed io la commissione da fronteggiare pronta a rispedirti a casa, potresti essere il tossicodipendente affetto da paura patologica ed io il medico pronto a diagnosticartela - alzò il coltello, sollevando il braccio a mezz'aria e puntando in direzione dello sterno del giovane - invece siamo due genitori in sala parto, pronti all'avvento di due gemelli denominati Terrore e Massacro. -

Ulisse sempre con il braccio teso nella direzione del giovane in trappola, prese ad avvicinarvisi di nuovo oscillando con il capo a destra e sinistra in segno di diniego. Anche lui ora stava sudando, impaziente di rendere le sue budella ad un gomitolo per gatti giocherelloni ed affamati.

- Solo che questo parto ha riscontrato delle complicanze. Terrore è saltato fuori senza problemi... - ora un ghigno malefico che esponeva i suoi denti diabolicamente bianchi, lucidi e perfetti aveva fatto la sua entrata in scena - ... ma Massacro sta facendo troppa fatica a venire al mondo. Per questo, i medici, preferiscono optare per un, come dire... -

Cesareo d'emergenza, ecco cosa. Vuole farmi a fette, squartarmi l'addome e farmi morire lentamente, guardandomi negli occhi soddisfatto mentre il sangue defluisce via da mio corpo e le forze mi vengono meno.

Neanche gli avesse letto nel pensiero, le parole che uscirono dalla bocca di Ulisse Barca per terminare la frase furono: "Cesareo d'emergenza". Rispose a esse con un gridolino sommesso e sorpreso. Sembrava spacciato, ma inconsciamente l'adrenalina e l'istinto di sopravvivenza gli imposero di provare un secondo tentativo di fuga.

Questa volta invece di aiutarsi con le sole mani, usò anche le gambe. Si accovacciò e caricò in direzione di Ulisse con foga enorme, assestandogli una sonora spallata in petto la quale pressione sgonfiò i suoi polmoni proprio come un pallone da mare con le sue emissioni stridule. L'uomo cadde a terra bianco come un cencio e vide il ragazzo scappare ed allontanarsi.

Il cimitero era vasto ed Alessandro aveva percorso un bel po' di strada già all'andata, perdendo molti liquidi a causa della calura arrivata senza preavviso quell'anno. Ora che aveva fatto più della metà di quella strada correndo e un po' disidratato, il suo corpo lo avvertì che doveva mantenere un minimo di contegno se non voleva finire ad ammasso di carne svenuta, rugosa e rinsecchita.

S'appoggiò per rifiatare un minuto su un catasto di sepolcri incompiuto se non nel suo scheletro, utilizzato al momento dal custode per conservare all'interno dei cunicoli, accessibili da ambo i lati della struttura in sé, degli esili vasi d'argilla sufficientemente resistenti per poter contenere acqua e fiori.

Respirava profondamente, riuscendo solo ad ascoltare i battiti del suo cuore. Vagamente aveva avvertito un leggero rumore di passi lenti, cauti. Non ci badò più di tanto: le visite li erano piuttosto frequenti.

Non avrei mai pensato di poter trovare qui Ulisse, di trovarmi faccia a faccia con lui. Ho avuto molta paura... quello che ha fatto a quelle due donne ubriache in piazza...
Se solo ci ripenso mi viene da vomitare!

Domò il conato provocato dal suo pensiero, quindi prese e gettò fuori due boccate d'aria. Di nuovo quel rumore di passi. Un respiro regolare, ma affaticato. Un rumore di ferro stridente.

- Vicini. Troppo vicini - disse Alessandro sottovoce.

Si, erano troppo vicini. Una mano furente proveniente dall'altra parte, distrusse i vasi arpionando Alessandro al collo, tirandolo a sé.
- Ma guarda che bel pesce grosso che ho pescato! - esclamò Ulisse divertito, che si era infilato nel cunicolo strisciando fino dall'altra parte.
- Credevi davvero di potermi sfuggire?! - urlò - Ti sgozzerò come i musulmani sgozzano le galline prima di cibarsene, gloriosamente ed in un solo colpo indolore! -

Alessandro, che non aveva poi così tanta voglia di morire quel giorno, di rimando gli conficcò tutti i denti nell'avambraccio, in profondità. Mentre Ulisse urlava dal dolore, la bocca di Ale veniva pervasa dal caldo liquido rosso che gli imbrattò tutto il naso e il muso, colando fino al mento. Ne sentiva l'odore e il sapore e, per quanto quest'accoppiata potesse essere nauseabonda, gli fu indifferente. Per un breve momento gli parve, o forse era stato realmente così, che avesse morso così in profondità da sentire le vene offese e recise pulsare e pompargli fiotti caldi in bocca. La cosa gli procurava un piacere sadico e subdolo e al contempo si meravigliava di possedere una simile cattiveria.

Ulisse però era un osso duro. Posò il coltello, e con la mano libera artigliò il viso di Alessandro sfigurandolo nel tentativo di divincolarsi o fargli allentare la presa. Niente da fare. Lo colpì forte all'occhio sinistro facendolo muggire furiosamente dal dolore, ma affondò di più i denti nelle sue membra. Lo colpì ancor più forte, questa volta all'orecchio sinistro, ed Alessandro urlò dal dolore cieco e sordo con la bocca completamente aperta e i denti serrati su quell'avambraccio che iniziava a perdere sensibilità.

Ulisse Barca sentì il braccio nuovamente umido, anzi bagnato. Capì che si trattava delle lacrime di Alessandro, che copiose e salate cadevano anche sulla sua ferita facendogliela bruciare ancor di più.
Il dolore e la stanchezza per lui dovevano essere diventati insopportabili. Lasciò la presa all'improvviso, franando a terra senza sensi.

Ulisse si strascinò fuori dal cunicolo, tutto inzaccherato dalla polvere di cemento dalla testa ai piedi. Si mise le mani sui fianchi, incurante della ferita e si mise a fissare il giovane, quasi con ammirazione. Si chinò e voltò il suo corpo per poterne cogliere meglio il viso. Osservandolo meglio, qualcosa lo colpì turbandolo nel profondo, tanto che emise un singulto strozzato e qualche incerto e spaventato passo indietro.

Si fece forza, si chinò e lo raccolse con la cura con cui si raccoglie un gigantesco sacco dell'umido, con una smorfia di dolore proveniente dall'avambraccio in fiamme e se ne andò via.

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